lunedì 31 gennaio 2011

Le "Frequently Asked Questions" diventano un social network.


Pubblichiamo oggi un intervento di Gianni Lombardi su nuovo social network, che già si presenta come un vero successo: Quora. Il pezzo è già stato lanciato da suo blog "Scrittore Free Lance".


Sin dagli albori di Internet è esistito uno strumento finalizzato per gestire le informazioni di base su un dato argomento: le FAQ, Frequently Asked Questions. Ora questo strumento, quasi venti anni dopo, ha figliato un social network specializzato in domande e risposte che potrebbe essere The Next Big Thing: Quora.

Quora è molto interessante in questo momento perché è in fase nascente, ovvero sta passando dal periodo del primissimo sviluppo a quello della crescita tumultuosa. Gli italiani per il momento sono pochi, e quei pochi tendono ad essere personaggi di un certo prestigio nell'ambito di Internet e della sua storia italiana, oppure sono i classici early adopter curiosi che entrano per primi a frugare fra le novità.

Qui c'è un esempio di una domanda molto interessante: come l'innovazione gestisce il sovraccarico di informazioni. Alcune risposte vengono fornite da geek ed esperti di livello mondiale.

Siccome è sempre difficile fare previsioni per il futuro, è difficile dire se realmente Quora sarà il prossimo fenomeno di Internet, oppure una delle tante mode passeggere. Molto dipende anche da come sarà gestito il suo sviluppo.

Il mio parere è che probabilmente diventerà una risorsa estremamente interessante per la parte più intelligente di Internet, quegli utenti che si interrogano sul futuro, sul passato ma che sono anche disponibili a mettere in discussione sé stessi e le proprie credenze e certezze. È molto più probabile che sia destinato a diventare un influente social network di elite, piuttosto che il nuovo Facebook.

Per farsi un'idea di Quora e della sua portata, qui tre degli argomenti che sto seguendo


Yoga

Shakespeare

Social network

Ovviamente il complesso degli argomenti possibili è sterminato ed è possibile trovare di tutto, sia per interesse professionale sia per gusto personale.

Gianni Lomnbardi:

venerdì 28 gennaio 2011

Caramelle dagli Sconosciuti.



Ognuno usa le sue armi ed il suo talento, nella vita.
Per questo oggi vi propongo un annuncio pubblicitario per rispondere ad attacchi gratuiti in risposta alla constatazione della diffusione di dati non corretti e manipolati.

Grazie alla collaborazione di Michele Bedeschi, art director e direttore creativo di Expansion, questo titolo è stato interpretato con diversi visual. Parecchi amici blogger hanno deciso di pubblicarli, ognuno dirà la sua sul tema, secondo la propria sensibilitò.

Io per esempio, ringraziando il mio editore, voglio qui parlare della responsabilità della stampa del nostro settore, in un momento di grandi cambiamenti come quello che stiamo vivendo.

Anche i giornalisti e le testate storiche, oltre a quelle più recenti, stanno interpretando il momento. Ognuno con il suo stile, ognuno con la sua personalità. Ma tutti sono uniti da una costante. Ci mettono la firma, ci mettono la faccia.

Questo permette ad ogni discussione, ad ogni argomento, di essere affrontato in modo corretto. Certo, ancora tanto c'è da migliorare. Ma di sicuro, conosco tanti giornalisti e tanti editori, nessuno sfugge al suo compito ed alla sua assunzione di responsabilità: il suo nome sta alla fine di ogni articolo, di ogni inchiesta, di ogni opinione.

Il tema è caldo, ed è stato affrontato anche recentemente, alla presentazione del libro di Enrico Pedemonte "Morte e resurrezione dei giornali". Anche le grandi testate cartacee e televisive si trovano a fare i conti con la rivoluzione digitale, con il fatto che con un pc oggi qualunque sedicenne può andare in rete con il suo giornale o il suo blog. E di questo personalmente sono felice. E' la parte evolutiva del 2.0, il cambiamento del rapporto scrittore lettore.

Diverso il fatto che ci sia chi ama celarsi, in questo rapporto, dietro l'anonimato. Questo permette, oltre al prevalere della vigliaccheria e della delazione (una riprovevole moralmente, l'altra giuridicamente), anche la possibilità che, in alcuni casi, possano essere propinate cifre, dati, valori che sembrano oggettivi, ma in realtà sono funzionali a progetti diversi dal fare chiarezza. Dichiararsi controinformatori e, solo dopo essere stati scoperti, ammettere di aver manipolato dati, non è bella referenza.

Queste caramelle dagli sconosciuti sono pericolose. L'Orco può anche mostrarsi di animo gentile e di cultura enciclopedica. Ma se non ci mette la firma, di sicuro vuole portarti per strade non chiare, farti passare verità interessanti solo a lui.

Ringraziando Dio, mi pare che l'ambiente del giornalismo pubblicitario abbia molti difetti, ma non quello dell'anonimato interessato. Testate e giornalisti ci mettono la faccia e la firma. Questo è consolante e garanzia per i lettori. Si possono migliorare tante cose, come è naturale. Ma tutti possono avere una certezza. Chi non ci mette la firma, è un perfetto sconosciuto. Perfetto, certo. Ma questa è virtù poco invidiabile.

pasquale diaferia

p.s.:
grazie ai tanti che mi hanno manifestato la loro simpatia in questa giornata, via mail o sms. Quello che mi ha fatto particolare piacere è che abbiano firmato i loro messaggi. A loro ho dedicato questa risposta, di cui spero verrà colto lo spirito ironico. Preferisco sempre essere finto testo, che essere certificato come vero taroccatore.

Broglia: troppa finanza ha ucciso la creatività


La video intervista di ADVexpressTv di Giuseppe Usuelli del 21 gennaio, intitolata 'Uno scatto d’orgoglio per uscire dalla palude' ha aperto un dibattito interessante sul futuro della pubblicità e, più in generale, della comunicazione. Il primo intervento che abbiamo ricevuto è quello del giovaneEmanuele Nenna, imprenditore della comunicazione con la sua Now Available che, ascoltando l’intervista dell’Ad di McCann, e leggendo il mio editoriale si pone una domanda semplice e, allo stesso tempo, complessa: 'Come uscirne?'. Anche Daniele Tranchini, Ad di Publicis è intervenuto sull’argomento sottolineando che il futuro sarà di chi saprà modificare il tradizionale modello di business.

Oggi registriamo l’intervento, quasi a sorpresa, di un personaggio che ha avuto un ruolo di protagonista nella pubblicità italiana. Parliamo di Carlo Broglia (nella foto) uscito dal business cinque anni fa. Per i più giovani che leggono questo articolo ricordiamo che Broglia ha iniziato la sua carriera come art, e nel 1971 ha fondato una propria omonima agenzia con la quale lancia in Italia due marchi come Lacoste e Adidas. Poi l’incontro con le holding internazionali, più precisamente col network Omnicom, al quale cede l’agenzia prendendo in mano le redini della DDB che ha guidato per vent’anni. Sono gli anni d’oro della pubblicità, dei grandi successi a Cannes con i numerosi leoni vinti, tra gli altri, per Volkswagen e Audi. Alla direzione creativa c’era il tostissimo Gianfranco Marabelli. Per molti anni la Verba/DDB è stata l’agenzia con la A maiuscola, quella dove tutti i creativi ambivano di lavorare. Broglia, insieme ai suoi fedelissimi, ha reso grande la DDB trasformandola in un gruppo di 10 società collegate.
Questa lunga premessa per dire che il personaggio conosce bene i meccanismi dei grandi gruppi internazionali. Avendoli vissuti ne conosce i lati positivi e quelli negativi. In questa sua lettera, col suo tifo alla giovane imprenditoria, ammette i limiti di un modello che deve cambiare, e anche velocemente. Nei momenti di disorientamento può essere utile il pensiero di chi, in passato è stato protagonista
Attendiamo altri interventi.

Caro Salvatore,
dopo 5 anni di onorato silenzio mi sembra doveroso intromettermi nel dibattito che finalmente sta nascendo circa le sorti della comunicazione italiana.
L'esperienza da imprenditore durante i 40 anni trascorsi nel mondo della comunicazione - di cui 20 come partner di DDB in Italia - mi porta a pensare che l'origine dei nostri malanni non risiede solo nella recente crisi planetaria e nemmeno nelle prolungate mortificazioni a Cannes ma ha le sue radici nel nostro modo di fare impresa e di rapportarci con i network che ci sovrastano.
Quando Emanuele Nenna dice "siamo creativi e pensatori ma parliamo solo di numeri" credo che abbia ragione, in quanto lo strapotere ormai consolidato dei finanziari - soprattutto nei grandi network - ci ha fatto diventare bravissimi a tagliare i costi ma indeguati a sviluppare i ricavi.
Ho avuto la fortuna di lavorare alcuni anni con Emanuele quando era partner e Ad in Tribal DDB e non mi meraviglio affatto che oggi stia avendo i suoi primi successi come imprenditore perché ha saputo racchiudere in un'unica sigla le competenze delle discipline più utili per il Cliente contemporaneo.
Ma andiamo con ordine.
Mentre ti sto scrivendo, in qualche angolo del mondo (non più solo negli Stati Uniti) qualche individuo o gruppo di individui sta progettando tecnologia in grado di modificare sensibilmente processi di comunicazione fino a poco tempo fa cristallizzati attorno al nucleo televisivo.
Questo significa non solo che le piattaforme di consumo si sono allargate e verticalizzate ma anche che i consumatori sono cambiati e i loro bisogni e le loro attese verso i prodotti e le marche hanno subito delle variazioni importanti degne di essere prese in seria considerazione dai comunicatori.
Una recente ricerca indica che tra poco ci saranno più computer palmari che fissi.
Ciò significa, in teoria, la possibilità di raggiungere il consumatore in qualsiasi momento.
D'altro canto il consumatore potrà facilmente scegliere (scegliere è la parola chiave) di non volerne sapere nulla della nostra marca o del nostro prodotto. Il consumatore sta diventando un vero e proprio cliente: desidera essere riconosciuto, chiamato per nome e ricevere comunicazioni su misura per lui. La necessità primaria di una marca è quella di trasformare la sua quota di notorietà in una relazione ad alta fedeltà con i clienti finali.
Dunque per essere attraenti dovremo passare anche attraverso l'enterteinment mettendo in campo specialisti del web, progettisti di videogame, organizzatori di eventi speciali,ecc..
Tutto questo è realizzabile solo in un'unica sigla forte, capace di competenze nuove e composite.
Il vecchio sogno dei network di creare più sigle per gestire meglio le varie discipline e i possibili conflitti credo che abbia fatto il suo tempo. Oggi è meglio essere più veloci ed efficienti.
Per concludere auguro alla futura DDB di trovare dei veri imprenditori illuminati capaci di innovare nel solco di una splendida tradizione di creatività che proviene non solo da Bill Bernbach ma successivamente anche da Keith Reinhard col quale ho avuto il piacere di lavorare.
Baci e abbracci.
Ciao Carlo

'Perchè il marchio Apple vale zilioni di dollari e il mio vale due patate?


Prosegue il dibattito inaugurato da ADVexpress tra i professionisti della comunicazione con un secondo intervento di Andrea Concato, che, dopo una prima profonda riflessione su mercato, agenzie, creatività e stampa di settore (vedi notizia correlata), ora si concentra sulle marche forti, quelle di valore, capaci di crearsi una reputazione attraverso una comunicazione rilevante. Non mancano i pensieri su manager e azionisti, futuro e tecnologia.

È possibile intervenire al dibattito partecipando al Lato B, il blog di ADVexpress ormai attivo da qualche anno, scrivendo alla redazione (redazione@adcgroup.it), o direttamente al direttore (salvatore.sagone@adcgroup.it).

Da venticinque anni (da quando mi hanno dato il permesso di entrare), incontrando i board di aziende di ogni tipo e dimensione, dalla multinazionale alla piccola azienda familiare, mi sento fare questa domanda: “Noi vorremmo diventare come la Apple. Perché non siamo come la Apple?” O come la Nike, o come la Coca-Cola. “Vorremmo che il nostro marchio fosse amato e ammirato come quelli.”
A volte mi è andata di culo e il riferimento è stato a marchi per cui ho lavorato a casi di un certo successo: Barilla, Fiat, Nissan, Tele+, Toshiba, Colgate Palmolive, Simmenthal, Scottex, Ariston, Peugeot e qualcun altro.

Ogni volta prendo la domanda sul serio e dico quello che ho imparato e che penso: perché dopo essersi assicurati di avere le altre tre P (e i capitoli di ciascuna P) inossidabili, hanno ricercato e stabilito la loro unica e distintiva ragione di essere, hanno disegnato le proprie caratteristiche e la propria personalità, ricercando una relazione con chi le può apprezzare, hanno capito che i rapporti fra i marchi e le persone implicano gli stessi sentimenti dei rapporti fra le persone, hanno fatto una promessa e proposto un patto con i loro clienti e con il mercato e l’hanno comunicato con semplicità e coerenza, tenendo la mano salda sul timone qualunque fosse la forza del mare. Hanno praticato serie politiche commerciali e hanno fatto i guardiani della continuità nelle varie aree o nei vari Paesi. Hanno dialogato con i loro clienti, li hanno ascoltati, hanno aperto canali, hanno promosso operazioni di comunicazione che testimoniano semplicemente la loro simpatia, la loro intelligenza, la loro etica, hanno tenuto conto degli argomenti che arrivano da chi compra i loro prodotti.

Così facendo sono diventate delle star, hanno generato ammirazione e amore, si sono create quel magico valore che si chiama reputazione. Oggi le aziende che si sono comportate così hanno in tutto il mondo un pubblico talmente fedele che alla comparsa di un nuovo prodotto, non lo comprano se ne hanno bisogno, non lo comprano se proprio NON ne hanno bisogno!"

C’è qualcuno che non vorrebbe avere dei clienti così?
Volete altre prove del valore di un brand? Quando è forte nemmeno l’insuccesso di un prodotto può rovinare l’azienda. Il caso New Coke non ha ucciso la Coca-Cola. Gli spaventosi modelli capitanati dall’Arna lanciati durante la gestione IRI non hanno cancellato l’Alfa Romeo, la terrificante cura De Tomaso non ha sotterrato la Moto Guzzi. Tre marchi forti per storia e tradizione di valori che hanno saputo o sapranno ridecollare appena riportato il prodotto nella franchise, nel perimetro dei
propri significati.
Datemi retta, l’idiozia, la superficialità, il facile gioco mi è simpatico-mi piace-lo compro non ha mai costruito alcun marchio, non ha mai edificato niente di solido. Purtroppo la pratica si è diffusa perché è un gioco facile che non richiede particolari competenze, ottiene illusori risultati di breve respiro e alcune agenzie in stato di bisogno hanno cavalcato senza ritegno il trend.

Infatti, dopo questo mio raccontino, l’adesione del board normalmente è unanime. Tutti d’accordo.
A volte per fortuna il seguito della storia va avanti bene.
A volte invece succede che dopo un paio di mesi va in onda la loro nuova campagna tv: un guitto da avanspettacolo e una sgualgia a dirsi vecchie battute idiote, un cretino famoso travestito, una famiglia cerebrolesa, una Formosa&Famosa che dice: “Fai come me”, una zoccola travestita da massaia, una massaia travestita da zoccola, spot senza qualità e senza dignità, ammiccamenti, allusioni, sottintesi, un’auto che corre nella campagna con una musichetta simpatica e uno slogan incomprensibile, gente che ancora assaggia il prodotto e dice. “Ma è delizioso! Ma è gustosissimo!” e ogni possibile combinazione degli elementi suddetti.
Dovunque, tonnellate di parole tanto abusate quanto inutili: unico, prestigioso, esclusivo, buono, selezionato, garantito, controllato, molto più che un..., per ogni vostra esigenza etc etc etc etc etc.

Ma dov’è l’intelligenza? Dov’è quell’ingrediente fondamentale nel rapporto fra persone e fra persone e marchi? L’umorismo dell’intelligenza si chiama ironia, non comicità volgare.

Se volete sentire un parere diverso sull’intelligenza delle persone, trovate un mio precedente articolo qui.

Se uno qualsiasi dei manager delle marche di cui parlavamo all’inizio vedesse lo scempio della maggior parte della nostra comunicazione penserebbe a uno scherzo.
Da tanto tempo invece la parte migliore del mio mondo si domanda perché.
Provo a fare un elenco di ragioni.


IL SIGNOR AZIONISTA E IL SIGNOR MANAGER

Come abbiamo visto, la reputazione del marchio (nel corso del tempo le abbiamo dato nomi più esotici: brand value, brand equity etc. io preferisco il buon vecchio concetto di reputazione, mi
sembra più solido, più campagnolo, più sano) dovrebbe essere argomento quotidiano nei board e nei reparti marketing.

Invece lo si incontra solo in occasione di due diligence (fusioni o acquisizioni), di riassetti societari, di passaggi generazionali e interessa più l’azionista che il manager. E quando ogni anno Interbrand o Business Week pubblicano classifiche e valori dei brand più noti al mondo, con quei numeri strabilianti.
E’ l’azionista infatti che pensa a cosa passerà ai suoi figli. Strutture industriali, strutture commerciali e reputazione.
Da troppo tempo l’interesse del manager e l’interesse del padrone rischiano di non sovrapporsi.
C’è una compagnia di giro di amministratori delegati, spesso gestiti dagli head hunter, che arriva nelle aziende con una visione di breve periodo. Ristruttura, razionalizza, rinegozia debito
e fornitori, smaltisce le scorte, lancia prodotti e promozioni. Ottiene risultati, produce utili e se nel caso difende quotazioni agli stock exchange. L’imprenditore sembra contento. L’AD si
procura articoli e copertine che lo celebrano sulla stampa che conta, fa girare le notizie delle sue performance e via verso una nuova avventura. Senza occuparsi di quel valore che interessa
all’azionista. Senza occuparsi dei decenni successivi.

Altra differenza: il coraggio di una decisione deviante.
Ogni campagna rilevante deve per forza essere innovativa, originale, spiazzante, coraggiosa.
Per cui non può avere precedenti su cui misurarla. Non può reggere un test, perché gli interrogati tendono a replicare l’adesione al già conosciuto. Richiede l’assunzione di un rischio che solo il padrone si può prendere, o uno di quei pochi AD che sanno comportarsi come un padrone.
Scusate se cito un caso a cui ho partecipato. Se la campagna “Dove c’è Barilla c’è casa” che ho generato alla fine del 1984 con Roberto Fiamenghi e Gavino Sanna non avesse contribuito, insieme alle altre campagne precedenti e successive, a solidificare una reputazione inattaccabile attraversoil presidio di valori importanti e condivisi con delle idee rilevanti, non andrebbe quasi immutata in onda da 25 anni e non rappresenterebbe un caso nella comunicazione italiana e nei master.
Quella campagna decollò e andò in onda con il primo spot di due minuti seguito da altri quattro solo perché, dopo che finii di raccontare le storie, fra molte teste assorte preoccupate e ciondolanti, dopo lunghe discussioni, Pietro Barilla a capotavola di un infinito tavolo da riunioni a Parma, disse: “La facciamo.”
Il giorno che lo spot andò in onda Pietro Barilla incontrò Indro Montanelli a Cortina che gli disse: “Pietro, avete fatto una campagna meravigliosa”. E il lunedì dopo in azienda non si
contavano i grandi manager che dicevano: “L’avevo detto io!”.

Ero lì, e vi dò la mia parola che andò esattamente così.
Se ogni operazione di comunicazione è un mattone nella costruzione del brand, non si possono continuare a delegare le insicurezze, le verifiche, le modifiche o le decisioni a middle manager che non sanno quello che fanno o non possono fare quello che sanno.
I migliori imprenditori, i migliori amministratori delegati dovrebbero tornare intorno ai tavoli con i migliori uomini delle migliori agenzie di comunicazione e occuparsi in prima persona dei progetti che riguardano questa variabile ormai così fondamentale del grande gioco del mercato. Che lascino per un giorno al mese le discussioni con gli analisti intorno al valore dello stock, le conversazioni con i business banker, con i fondi, con gli head hunter.
Sono sicuro che Luciano Benetton, Renzo Rosso, Sergio Marchionne, Giorgio Perfetti, Guido Barilla, Bernardino Caprotti l’hanno fatto o lo fanno.
E che si fidino di noi. Perché questo è il nostro mestiere, non il loro. Quelli di noi che hanno capacità ed esperienza conoscono le persone, i comportamenti e i mercati come nessuno. Noi siamo passati attraverso centinaia di casi e di ricerche. Noi vediamo mercati diversi e li incrociamo. Noi possediamo una profonda e raffinata cultura, e siamo capaci di lasciarla sedimentare e buttarla via per seguire un’intuizione nuova e stabilizzante. Noi sappiamo produrre idee leggere solo perché abbiamo conoscenza pesante. Noi, italiani, se liberati dalle catene siamo migliori dei nostri colleghi di qualsiasi Paese.

La finanza è la conseguenza di un lavoro ben fatto, non lo scopo.
Tutti ci stiamo facendo distrarre dalla finanza, anche le grandi agenzie, parte di gruppi quotati. Un giorno pochi anni fa incontro a Parigi Alain de Pouzilhac, all’epoca ceo di Havas (di cui ero
socio in un’agenzia a Milano), che nella hall del palazzo del gruppo mi fa: “Sai Andrea, ho pensato che dovrei nominare alcuni uomini molto capaci a capo delle operazioni internazionali per i nostri clienti più importanti, come degli international brand directors.” E io ricordo perfettamente che ho pensato: “Questo a furia di parlare con i banchieri si è fulminato il cervello. Cosa pensa che facciamo noi tutti i giorni? Quello che sta progettando è la cosa più sensata e normale da fare al mondo. A cosa stava pensando fino a ieri?”


L’ANSIA

L’ansia è un stato d’animo negativo ma distruttivo. Al contrario dello stress, che è uno stato d’animo negativo ma molto creativo. Noi lo sappiamo molto bene.
L’ansia non produce niente di buono.
Io prendevo in giro la mia mamma che, finché c’era, quando andava a Roma in treno già a Firenze si preparava con la valigia per scendere, per timore di mancare la fermata.
La necessità di tenere la barra dell’identità di marca bella diritta preclude l’ansia come metodo di lavoro.
Eppure ogni anno assistiamo a marche che cambiano campagna, a volte con capovolgimenti acrobatici di significati e linguaggi.
Voi cosa dite di una vostra amica che ogni sei mesi cambia colore e stile dei capelli, trucco e abbigliamento, atteggiamenti e interessi? Che è insicura? Bene, anche le persone lo dicono delle
marche che fanno così.
Per far questo le aziende indicono le meravigliose gare.
Io lo capisco. Se sono scapolo e voglio scegliere una ragazza con cui passare un mese a zonzo che ne so, per la Baja California, e sette delle migliori mi danno gratis, a domicilio e a mio comando un completo assaggio di quelle prossime settimane, ma chi mi ferma dal farlo?
Peccato che questo potrebbe essere un buon metodo per scegliere una ragazza per la Baja
California. Non un partner in un settore cruciale con cui investire somme da piccole a enormi, ma sempre cruciali per i bilanci. In un’atmosfera da laboratorio, con persone che spesso conoscono poco di noi e del nostro mercato, si pretende di fare la scelta giusta senza avere strumenti e capacità di giudizio adeguati.
Infatti molto spesso la campagna scelta in gara non va in onda, o viene sostituita dopo poco, o va di nuovo in gara.

Ma io dico, passate un week end insieme al gruppo di lavoro dell’agenzia in un bel resort di campagna, e ne saprete molto di più delle loro personalità e delle loro potenzialità!
Oltre a vedere come stanno a tavola, che è sempre un bel modo di giudicare le persone.
C’è un esempio famoso, che viene spesso citato. E per questo lo racconto senza paura di farmi altri nemici oltre a quelli che ho già.
In Veneto, più o meno nello stesso periodo, nascono due aziende: Benetton e Stefanel.
Luciano Benetton ha la fortuna di imbattersi in un genio visonario: Bruno Suter, che ha la sua agenzia a Parigi di nome Eldorado. Benetton e Suter in poco tempo distillano un marchio e una
missione: United Colors of Benetton, con l’idea che i colori potessero unire popoli, nazioni, razze e religioni.
Con l’aiuto di alcuni grandi fotografi, il più noto dei quali Oliviero Toscani, che più tardi senza esperienza di comunicazione esaspererà il concetto fino al rischio di rottura, producono alcuni dei
più importanti pezzi di pubblicità italiana di sempre, rispettati e premiati in tutto il mondo.
Il risultato è una reputazione e notorietà scintillante ottenute in dieci anni, quando per avere gli stessi risultati nel mondo, Coca-Cola ne ha impiegati cinquanta.
Dal primo incontro con Suter, Benetton tiene la barra diritta. Fa come Apple, Coca-Cola, Nike.
Io non so esattamente perché Stefanel non abbia fatto lo stesso, per cui non dò spericolati giudizi.
Ma Stefanel nel tempo continua a cambiare consulenti, agenzie, direzioni, mood, personalità, creatività.
Il risultato è sotto gli occhi di chiunque. Provate a chiedere per la strada di descrivervi la personalità di Benetton e quella di Stefanel e vi accorgerete della differenza.


IL FUTURO E LA TECNOLOGIA

Viviamo un’epoca eccitante. Mai come oggi si sono aperte arene del possibile in cui esercitare intelligenza e creatività. Fare il creativo oggi è una pacchia. Ci sono millanta occasioni in tutti i
diversi mezzi con cui oggi si possono raggiungere le persone, o farsi raggiungere da loro. Per non parlare di combinazioni e incroci.
Ricordo una mia intervista del 1989 in cui già mi lamentavo di avere sempre gli stessi pochi mezzi per raggiungere chi dovevo! Trenta secondi, doppia pagina, poster, radio e morta lì. Per anni
i “giovani” sono stati irraggiungibili dai media tradizionali, con l’eccezione della radio. Sembrava di somministrare sempre la stessa medicina qualunque fosse il bisogno. Roba da matti.
In più oggi la comunicazione non è più solo one way. Finalmente la gente risponde.
Si può realizzare davvero l’ipotesi del legame fra marche e persone.
I forum, lo User Generated Content, le mobile applications, gli eventi reali o sul web, la partecipazione remota, la verifica dell’interesse geolocalizzato, i blogs, esperienze sempre più
personalizzate ed emotive grazie alle nuove tecnologie informatiche come HTML5 e tutto quello che sta per arrivare e arriverà possono davvero realizzare l’utopia a cui si sperava prima o poi di
arrivare.
Io non sono d’accordo con chi sta parlando di reset, di rivoluzione, di cambiamento.
Io dico che finalmente abbiamo gli strumenti per realizzare compiutamente quello che i migliori di noi già sapevano di dover fare.
Che ci sia oggi come prima chi li sa usare e chi no, non è una scoperta recente.
Le campagne di merda c’erano anche negli anni ’80.
Il vero cambiamento è nel rapporto fra clienti e agenzie. Perché i clienti ancor prima delle agenzie sono disorientati. L’offerta di servizi e di consulenza si è enormemente ampliata. Si fa una fatica bestiale a distinguere i professionisti dai ciarlatani, l’utile dal pletorico, il necessario dallo spreco.

In questo casino la percezione del costo della qualità si è persa.
In questo casino i responsabili nelle aziende sono propensi a preferire persone di cui si fidano a persone davvero capaci.
La palla è alle agenzie. Che devono alzare la voce con l’orgoglio delle proprie capacità, talenti, competenze, conoscenze. Che devono farsi rappresentare degnamente nelle associazioni, separando i fornitori settoriali ed espellendo i ciarlatani. Che devono ridare ai clienti una sensazione di fiducia e di serietà, di essere capaci e fidati nello stesso tempo.

Oggi e domani sono fantastici. Sarebbe un peccato non divertirsi.

Andrea Concato

domenica 23 gennaio 2011

La Sindrome di Dan Peterson ed i Creativi Italiani.




Molti sanno che io seguo, per il Corriere dello Sport, il basket nazionale. Immaginate cosa possa aver significato per me, pubblicitario, ex allenatore, giornalista, la presentazione di Dan Peterson come nuovo allenatore dell’Olimpia Milano. Il coach supervincente, che poi è diventato presentatore televisivo e testimonial pubblicitario, torna a 75 anni a guidare la squadra che l’ha reso famoso in Italia.

La foto in apertura rappresenta l’effetto mediatico del ritorno. Un muro di fotografi che non ricordo neanche per Paris Hilton.
Che c’entra questo, direte voi, con i creativi italiani? Un attimo di calma e ci arriviamo. Lasciatemi celebrare la mitologia petersoniana. Dan ritorna, vince la prima gara dopo un giorno, poi ne vince un’altra e va avanti di questo passo risollevando sorti ed immagine della storica società milanese di proprietà dell’altro grande vecchio Giorgio Armani.

Per farla breve, un vero smacco per tutta una generazione di allenatori italiani tra i 40 ed i 50 anni, che improvvisamente si vedono superati dal rientro di questo maestro. Non solo tecnicamente, ma anche dal punto di vista della popolarità, dell’impatto sui media, del calore e dell’affetto del pubblico. Il 4 gennaio, tutti i quotidiani dedicavano la prima pagina al suo rientro, tutti i tg hanno passato la notiza. Il 5 gennaio, quando Dan è entrato in campo durante il riscaldamento, tutto il pubblico del Forum, quasi 6 mila persone, si è alzato in piedi ad applaudire. Io ero in tribuna stampa a difendere il mio posticino dall’assalto di più di un centinaio di colleghi di altre testate non sportive che celebravano l’evento.

Insomma, una reputazione ed un rispetto che nessun nuovo allenatore giovane è mai riuscito ad accumulare in Italia negli ultimi anni. Una vera Sindrome di Dan, che attanaglia tutti quei professionisti che hanno provato a lasciare un segno nella comunità del basket nazionale: non sono nenche vagamente riusciti a raggiungere il grande vecchio che si è ritirato 23 anni fa.

Per venire a noi, provate ad immaginare che domattina ritorni Gavino Sanna alla guida che ne so, della McCann, e nel giro di qualche settimana gli vengano affidati i cinque più importanti clienti: Barilla, Eni, Pirelli, Fiat e Tim.

Fate fatica ad immaginarlo, vero? Perché, nonostante si tenti di far passare un’immagine poco positiva, noi creativi italiani non soffriamo della Sindrome di Dan Peterson. Qualche settimana fa Andrea Concato, per esempio, ha dichiarato pubblicamente che lui sente nostalgia dei condottieri creativi del passato. Immagino che tra questi ci fosse Gavino, così come si può intuire che la citazione fosse dedicata ai Pirella, ai Mignani, a quegli uomini che, negli anni della società affluente, e della televisione locomotiva della crescita, riuscivano a catalizzare budget, campagne memorabili, interesse dei giornalisti e del pubblico.

Nonostante la stima per i nomi citati prima, io non ho nostalgia dei condottieri creativi. Anzi penso che non ne abbiamo proprio bisogno. Noi creativi di 40/50 anni siamo riusciti, in un perido di grandi cambiamenti e di crisi economica, a trovare la quadra. Nonostante un decennio in cui nelle agenzie, oltre ai tagli ai reparti, si cercava proprio di annullare l’ “effetto guru” e di azzerare la centralità delle personalità creative, in questo paese ci sono uncora una fila di copywriter e di art director che non possono essere sostituiti dall’eventuale ritorno del divo Gavino. Ed altrettanti se ne sono andati all’estero, a misurarsi con mercati (e CEO) anche più impegnativi dei nostri

Non sono solo le tonnellate di leoni riportati a casa da Cannes quest’anno dalla squadra di Maestri & Co a farmelo dire.
Non sono solo i Clio e gli ori di Cannes vinti da Rodriguez e Dorizza.
Non sono solo le ottime cose messe infila dai vari Gitto, Taddeucci, Albanese, Marini, Natale, Napolitano, Carnevale, Stillaci, Mastromatteo, eccetera, eccetera (non è la lunghezza della lista che conta, ma ce ne sono tanti altri e tutti di valore).

E' la reputazione dei singoli che rende davvero impossibile che nel nostro ambiente succeda quello che è avvenuto nel basket.
Siamo riusciti a lavorare mantenendo ottimi standard di dignità creativa. Nelle multinazionali guidate dai finanziari come nelle strutture indipendenti nazionali.
Anche se l’atmosfera economica non è delle migliori, nessuno può pensare di sostituirci con grandi vecchi di alcun tipo.
Quello che manca non è la credibilità di un individuo, di un condottiero. Quello che ci vuole è il rendere pubblica la forza di tutta la nostra comunità.

A giorni si va ad eleggere il nuovo presidente di ADCI: un personaggio che è il vero snodo della rappresentatività del nostro movimento. Magari qualcuno ci proverà a proporre un presidente ADCI supersenior per cercare di mettere sotto tutela i creativi italiani. Ma vedrete che chi guiderà il club, Massimo Guastini (al momento unico candidato) o un altro creativo, chiunque altro sarà, della sua, della mia generazione, dimostrerà che non abbiamo bisogno di Condottieri Creativi Ultravecchi (e menchemeno Ultragiovani, visti i risultati dell’esperimento Cremona).

Il 2011, e così penso tutto il prossimo decennio, si preannuncia ancora confuso e dumpeggiante. E’ di questi giorni il colpo di teatro di Enfant Terribles che esce da una gara praticamente già vinta, perchè Mizio & Co non si sentivano garantiti dagli standard di rapporto. E’ del finale dell’anno scorso la contestazione di una gara ministeriale perché chi se l'era vista assegnare chi, un consorzio con la Rai in prima fila, non poteva partecipare, figuriamoci vincere. Mi aspetto ancora tanti casi come questi, fino a quando i Ceo delle agenzie e quelli delle aziende non sapranno darsi regole certe ed etica comune.

L’altra cosa che spero avverrà è che anche i clienti, oltre che chi guida le agenzie, comprendano che c’è tanto talento in questo paese. Non c’è bisogno di andare in UK o in Argentina per migliorare la qualità e le performance delle nostre campagne. Basta affidarsi ai tanti direttori creativi che sono riusciti, anche in tempi duri, a svincolarsi dalla memoria dei guru del passato e a portare a casa perfino quei riconoscimenti internazionali che da tempo mancavano.

Andatevi a rileggere i miei post da Cannes (questo oppure questo), andate a rileggervi le considerazioni sul Rinascimento Creativo Italiano che è in corso, e che solo i settantenni che annaspano nei rubygate e nei pantani della politica sono incapaci di vedere.

L’augurio è che questo Rinascimento sia guidato da un forte presidente di ADCI. Ci vorrà poco per sapere chi sarà. La speranza è che nessuna spinta conservatrice né il rimpianto dei bei tempi andati freni questo processo. La certezza è che, qualsasi cosa succeda, noi creativi di questa generazione non soffriremo mai della sindrome di Dan Peterson. E tantomeno di quella di Gavino Sanna.

lunedì 17 gennaio 2011

How we will be, in adci.


Massimo Guastini ha deciso di candidarsi a presidente dell'adci.

Ha scritto un programma molto completo, che copiamo qui sotto.

Nonostante Massimo sia un amico, ed una persona che stimo molto,
non ho intenzione su quest blog, che rappresenta una testata e non il sottoscritto,
di prendere una posizione a suo favore o a lui contraria.

Quello che penso di pubblica utilità,
è diffondere un programma che, per la prima volta dopo tanti anni, prova ad ipotizzare quale sia il futuro di questa professione, e come i creativi possano influenzare queste scelte (i commenti sono benvenuti qui, ma anche sul blog di massimo
oltre che sul gruppo di facebook appositamente creato).

Visto che i gradi temi mi appassionano, ma preferisco agire piutosto che parlare.

Buon anno a tutti,
pasquale diaferia

CANDIDATURA DI MASSIMO GUASTINI A PRESIDENTE DELL’ADCI.

PIANO STRATEGICO 2011-2014.

- La mia candidatura.
- Gli obiettivi.
- La strategia.
- La comunicazione.
- FAQ.

La mia candidatura.
Perché amo questa professione e penso di avere l’energia,
la determinazione e le idee necessarie per produrre un
cambiamento all’interno del Club.
Perché penso che il contesto attuale richieda
necessariamente un cambiamento per restituire valore alla
nostra categoria.
Perché sono convinto che gli strumenti utilizzati dal Club
(annual e festa) non sono più utili.
Perché credo dovremmo perseguire gli scopi già presenti
nello Statuto dell’ADCI che negli ultimi anni sono stati invece
ignorati:
Art. 2. Scopi dell'Associazione
2.1 - L'Associazione ha i seguenti scopi:
2.1.1 - Favorire l'interscambio professionale fra gli iscritti e
gli enti o persone interessate alla comunicazione
pubblicitaria o editoriale, in Italia e all'estero.
2.1.2 - Obiettivo primario è quello di migliorare gli standard
della creatività nel campo della comunicazione e delle
discipline ad essa collegate. Promuovere la
consapevolezza dell'importanza di questi standard
all'interno della comunità aziendale, istituzionale e
del pubblico in genere, in Italia e all'estero.
2.1.3 - Operare per la qualificazione, valorizzazione
e sviluppo dell'attività professionale.
Perché sono certo che non dovremmo limitarci a parlare alla
nostra community, ma allargare il dialogo agli interlocutori in
azienda e al pubblico in genere.


Gli obiettivi.
1) Ritrovare l’identità corale e le ragioni che ci
uniscono. Perché solo l’associazionismo può offrirci oggi
la possibilità di tornare ad avere il ruolo che ci spetta:
protagonisti della comunicazione.
2) Restituire dignità e valore al nostro lavoro.
Dobbiamo recuperare credibilità e autorevolezza attraverso
un dialogo e un confronto continui con il mondo delle
aziende.
3) Tornare a essere considerati operatori culturali.
Come lo eravamo quando intellettuali del calibro di Eco ci
chiedevano di scendere in campo e partecipare a temi di
rilevanza assoluta per la società civile.
4) Diventare un reale punto di riferimento nella
formazione dei giovani.
5) Essere un punto di riferimento per tutti i creativi,
colleghi soci e non, anche per quanto riguarda gli aspetti
economici, gestionali, pratici ed etici.
6) Avere un Annual realmente utile agli scopi
comuni.

La strategia.
1) Ritrovare l’identità corale e le ragioni che ci
uniscono. Perché solo l’associazionismo può offrirci
oggi la possibilità di tornare ad avere il ruolo che ci
spetta: protagonisti della comunicazione.
Non vi propongo di essere “guerrieri” andando a vincere
tutti i premi possibili, e in tutti i modi possibili.
Per me oggi un protagonista della comunicazione è:
- chi spende le proprie energie e capacità professionali per
migliorare gli standard creativi e culturali di ogni singola
comunicazione. “Per smuovere, anche solo di un
millimetro, il livello qualitativo della comunicazione
di una azienda vocazionalmente dedita alla
produzione massiva di letame comunicativo”
(ringrazio Marco Carnevale per questa ispirazione)
- chi è consapevole che con il suo ruolo contribuisce allo
sviluppo di quell’astrazione chiamata immaginario collettivo.
- chi in virtù di questa consapevolezza spende
determinazione e creatività per migliorare qualunque
messaggio, non solo quelli che verranno a contatto con
micro comunità elitarie (ovvero sia colleghi giurati di
importanti festival).
- chi persegue l’obiettivo primario dell’Adci e non il proprio
avanzamento in qualche irrilevante ranking. Lavoriamo per
promuovere marche, servizi, per diffondere idee, non per
promuovere noi stessi. E in virtù di questa consapevolezza
dobbiamo pretendere di essere pagati in denaro, non in
premi.
- chi si batte in ogni ufficio, in ogni sala riunioni o situazione
pubblica, contro chi si oppone ai punti precedenti.
Se all’Adci servono soci che siano protagonisti attivi della
comunicazione, dobbiamo rivedere le procedure di
reclutamento.
Lasciare che siano solo le valutazioni delle giurie a
determinare il possesso dei requisiti minimi di ingresso nel
club sarebbe miope: molti colleghi fanno un lavoro titanico,
in linea con i princìpi appena espressi, che però non si
traduce in entry nell’annual.
Voglio introdurre due innovazioni:
- ogni direttore creativo socio del Club può proporre tre
nuovi soci (all’anno) al consiglio direttivo, allegando lavori e
motivazioni scritte.
- un comitato selezionato dal consiglio direttivo avrà
l’incarico di identificare possibili nuovi soci da invitare e non
solo tra creativi, fotografi, illustratori, registi, musicisti, ma
anche fra account e uomini di azienda, qualunque
professionista sia stato complice di un un lavoro o un’attività
che contribuisca a migliorare gli standard creativi e
culturali nel campo della comunicazione e delle
discipline ad essa collegate.
2) Restituire dignità e valore al nostro lavoro.
Dobbiamo recuperare credibilità e autorevolezza
attraverso un dialogo e un confronto continui con il
mondo delle aziende.
Lasciate che sintetizzi il contesto attuale:
- stiamo diventando la figura professionale più precaria e
meno pagata della filiera.
- siamo la manovalanza che lavora giorno e notte per
sfornare idée gettate in quelle fornaci senza fondo che sono
le gare, quasi mai remunerate. .
- il nostro punto di vista conta sempre meno. Nelle sale
riunioni dove le campagne vengono scelte, negli
organigramma di agenzia, nelle decisioni gestionali e nei
confronti pubblici. Non siamo nemmeno presenti dove
UPA, Assocomunicazione, Rai, Mediaset, Sky, ecc,
discutono mensilmente di temi inerenti all’etica della
comunicazione: lo IAP (Istituto Autodisciplina Pubblicitaria).
Per perseguire questo secondo obiettivo dobbiamo
cambiare il modo di relazionarci con l’esterno.
Sia individualmente sia come Club.
a) Invitiamo le testate di settore a non interpellarci solo per
commentare uno spot, per interpretare nuovi trend o per
predire i prossimi leoni di Cannes. Sollecitiamoli a chiederci
opinioni su temi più “scomodi” ma più rilevanti.
b) promuoviamo un “censimento” (e divulghiamone i risultati)
per sapere: quanti creativi lavorano oggi nelle prime 70
agenzie italiane; il tipo di inquadramento; la remunerazione
media a seconda del livello di seniority; condizioni e orari di
lavoro.
c) utilizziamo i risultati di questa ricerca per chiedere un
confronto a UPA. Cerchiamo un dialogo diretto con chi
commissiona i progetti che noi dobbiamo realizzare.
d) spieghiamo anche noi all’Upa perché le gare vanno
remunerate e regolamentate. Non possiamo delegare ad
altri questa battaglia.
e) identifichiamo un partner autorevole nel campo delle
ricerche con il quale creare un “laboratorio“ permanente
online per monitorare l’impatto di alcune campagne. Nessun
premio in palio, “solo” learning, conoscenza da condividere
con le aziende.
f) iscriviamoci allo Iap, per essere presenti quando si discute
di aspetti etici del nostro lavoro.
3) Tornare a essere considerati operatori
culturali. Come negli anni 70, quando intellettuali del
calibro di Eco ci chiedevano di scendere in campo e di
partecipare a battaglie sul divorzio o sull’aborto, a temi
di rilevanza assoluta per la società civile.
Sono d’accordo con quanto scrisse Andrea Concato a fine
2009: “Io sogno un club in cui si abbia il coraggio
di prendere posizione su argomenti pubblici”.
Non è solo un bel sogno. E’ un obiettivo raggiungibile.
Identifichiamo tematiche attinenti al nostro ruolo, rilevanti
per la parte più sensibile e acculturata dell’opinione
pubblica, e comunichiamo il punto di vista del Club. Sia
attraverso progetti di comunicazione, sia attraverso
comunicati stampa e interviste.
Se prendiamo parte ai dibattiti di pubblico interesse,
acquisteremo rilevanza.
Se parteciperemo a realtà editoriali che stanno nascendo,
daremo risalto alla nostra voce.
Se sapremo usare la ricchezza di talenti all’interno del Club,
produrremo punti di vista e contenuti che altri vorranno
riprendere.
Non dobbiamo fare politica, ma dobbiamo essere
consapevoli che la professione di comunicatori comporta
responsabilità sociali.
“Non ha più senso battersi per una pubblicità
migliore senza combattere anche per una civiltà
migliore.” (Pasquale Barbella)
4) Diventare un reale punto di riferimento nella
formazione dei giovani
Identifichiamo 20 giovani con le potenzialità per emergere
ma che non possono permettersi gli ormai onerosi
investimenti necessari (scuole, stage non remunerati)
Seguiamoli in un percorso biennale dando loro formazione
pratica e contatti. Facciamoli ruotare all’interno delle
agenzie, facciamoli lavorare anche a progetti del Club.
Diamo loro la possibilità di capire cosa è il nostro lavoro e di
farsi notare senza che debbano pagare cifre inavvicinabili
per gran parte delle famiglie italiane di oggi.
Recuperiamo “I venerdì di Enzo”. Erano una bella iniziativa.
Credo che sia possibile avere un socio senior, ogni venerdì
pomeriggio nella sede del Club, disposto a incontrare alcuni
giovani per vedere portfolio e dare consigli.
Il presidente dell’Adci e il suo consiglio direttivo dovrebbero
rendersi disponibili, una volta all’anno, a un incontro con i
giovani che vogliono entrare nel nostro mondo del lavoro o
che hanno iniziato a frequentarlo da un paio di anni.
La portfolio night è sicuramente da replicare.
5) Essere un punto di riferimento per tutti I
creativi, colleghi soci e non, anche per gli aspetti
economici, gestionali, pratici ed etici.
Trasformarsi in una “macchina da annual” ha annichilito le
occasioni di incontro, confronto e interscambio. Abbiamo
“tradito” gli scopi indicati dall’articolo due del nostro Statuto.
Aumentano i colleghi indotti a diventare liberi professionisti e
quelli che fondano piccole strutture indipendenti. Spesso
non hanno nemmeno idea di cosa significhi aprire una
partita iva o una srl. Ma con la loro inesperienza
contribuiranno a determinare il mercato. E non in meglio.
Se vogliamo ridare valore al nostro lavoro dobbiamo sapere
noi per primi che valore dargli. Dobbiamo aumentare la
consapevolezza di tutti i colleghi, soci e non, sugli aspetti
economici, e gestionali del nostro lavoro.
L’averli delegati ad altri è parte dei nostri problemi attuali.
Dovremo promuovere degli incontri dove condividere
metodologie di gestione; criteri per determinare le richieste
di remunerazione fatte alle aziende; comportamenti etici sia
nell’affrontare il mercato sia nell’espletare le nostre funzioni
quando affrontiamo determinati temi o lavoriamo su
determinati settori. Non intendo vincolare le scelte di
nessuno. Ma penso che un club di protagonisti della
comunicazione debba esprimere delle linee guida.
E dovremo confrontare i nostri orientamenti di pensiero con
rappresentanti del mondo delle aziende, anche in incontri
pubblici.
6) Avere un annual utile agli scopi comuni.
L’Annual non può essere esclusivamente autoreferenziale.
E’ inutile e non serve a promuovere la consapevolezza
dell'importanza di questi standard (di creatività)
all'interno della comunità aziendale, istituzionale e
del pubblico in genere, in Italia e all'estero
L’Annual attuale non è un prodotto desiderato al di fuori
della ristretta cerchia di persone che fa il nostro stesso
lavoro. Dobbiamo ripensarlo come uno strumento corale
con cui esplicare la nostra funzione di “operatori culturali”.
Va trasformato in un prodotto editoriale rilevante per
chiunque sia interessato alle nuove tendenze e a contenuti
di “spessore” in qualunque campo della comunicazione.
Deve raccogliere i progetti migliori di tutti i campi della
creatività (musica, televisione, teatro, architettura, design…),
compresa la pubblicità
L’Annual non pubblicherà più tutte le scelte operate dalle
giurie ristrette, (che saranno invece pubblicate
integralmente on line) ma essenzialmente solo quelle
premiate con i coni. Saranno un’interruzione culturale
all’interno di “programmi” culturali”: le migliori campagne TV
all’interno della sezione che presenterà i migliori contenuti
usciti in Italia sul “piccolo schermo”; dove segnaleremo e
intervisteremo registi, sceneggiatori, autori secondo noi più
interessanti.
Lo stesso principio va attuato per tutte le altre categorie.
Verranno identificati dei responsabili editoriali, uno per ogni
campo. Questi recluteranno tra i soci volontari il team
necessario. Saranno loro i responsabili unici della sezione di
loro competenza. Nessuna regola alla composizione di
queste mini redazioni, a parte quella che ciascuna dovrà
avere rappresentanti di tutte le età, dai soci più giovani a
quelli più vecchi.
Stessi principi di fondo per quanto riguarda il Blog, che va
resuscitato e deve diventare allo stesso modo una voce on
line corale che dovrà affrontare temi d’attualità e pubblicare
contenuti di vario tipo, tra cui anche campagne pubblicitarie
in uscita e segnalate dai soci.

La comunicazione.
Ogni notizia che daremo, quale che sia lo strumento
utilizzato, dovrà combattere il pregiudizio che il Club sia
autoreferenziale e non rappresenti la realtà dei professionisti
della comunicazione definiti "creativi".
Ogni notizia dovrà contribuire a costruire l'immagine di un
Club in prima linea nel combattere le battaglie che non
possono essere rimandate:
- precariato della categoria;
- condizioni di lavoro surreali;
- sfruttamento dei giovani
- comunicazione più sessista di Europa
Strumenti di comunicazione: oltre all’Annual e al Blog ci
servirà un’attività di ufficio stampa “ficcante e battagliera”.
Vorrei che fosse gestita all’interno. Non tanto per
risparmiare. Penso realmente che sapremmo farlo meglio di
chiunque altro.

FAQ
Pensi di essere il candidato ideale alla Presidenza
dell’ADCI?
Per mesi ho sperato che qualcuno si candidasse per
portare avanti le istanze in cui credo. Solo quando ho capito
che nessuno aveva la voglia, o l’intenzione, di perseguire il
programma che avevo in mente ho deciso di presentarmi.
Il fatto che tu non sia tra I creativi italiani più
premiati non mina la tua credibilità, sia all’interno
sia all’esterno del Club?
Ho sempre visto i premi come una conseguenza del buon
lavoro. Non li considero né un mezzo né un fine. Sono stato
felice per l’exploit di JWT a Cannes e in genere ammiro i
colleghi che ricevono importanti risconoscimenti con
continuità. Ma soprattutto ammiro quelli che riescono a
innalzare qualitativamente lo standard creativo, un millimetro
alla volta, giorno dopo giorno, con clienti veri e
“geneticamente” refrattari alla buona comunicazione.
Non pensi che lavorare in una struttura
indipendente ti precluda la possibilità di essere
rappresentativo dei creativi italiani?
Penso l’esatto contrario. Il Club oggi rappresenta i creativi
delle grandi agenzie, ma lo scenario è completamente
cambiato negli ultimi tempi. Sempre più creativi lasciano, o
vengono costretti a lasciare, le multinazionali per diventare
liberi professionisti o per dare vita a piccole agenzie. Non è
più una tendenza, sta diventando una costante. Per questo
credo che la mia esperienza da creativo, nonché da
imprenditore indipendente, possa essere utile al Club.
Tutti potranno diventare Soci ADCI?
Il club smetterà di essere un’elite autoriferita, ma dei requisiti
d’ingresso saranno ancora necessari. Come ho scritto nel
primo punto del programma, ogni direttore creativo socio
del Club potrà proporre tre nuovi soci (all’anno) al consiglio
direttivo, allegando lavori e motivazioni scritte. Anche se
questi non hanno le tre entry richieste. Inoltre un comitato
selezionato dal consiglio direttivo avrà l’incarico di
identificare possibili nuovi soci da invitare, e non solo tra i
“creativi”. L’intenzione è quella di allargare il Club il più
possible, ma senza snaturarlo.
Che fine faranno i Sostenitori e gli Studenti ADCI?
Coloro che parteciperanno attivamente, per 3 anni di
seguito, alle iniziative del Club (vedi mini redazioni per
l’Annual o contributi al Blog) acquisiranno lo status di Soci
ADCI a tutti gli effetti.
Che fine faranno le giurie ristrette?
Continueranno a esistere. E continueranno a essere
selezionate con gli stessi criteri decisi dal Consiglio uscente.
Ma mi piacerebbe che fossero così illuminate da invitare alle
selezioni una serie di protagonisti della storia della
comunicazione italiana che attualmente ne sono fuori.
Inutile fare nomi ora. Li conoscete tutti.
Le scelte operate dalle giurie ristrette verranno pubblicate on
line sul sito dell’ADCI, ma non sull’Annual. Su quest’ultimo
andranno pubblicati solo gli Winner di ogni categoria più
alcune entry, a discrezione delle redazioni di categoria.
Magari su segnalazione delle stesse giurie ristrette. A volte
un annuncio perde il bronzo per pochi voti.
Come si trasformerà l’Annual?
Diventerà un vero prodotto editoriale atto a selezionare la
qualità creativa in tutti i campi della comunicazione: dalla
musica al cinema, dalla televisione al design. Oggi ci sono
guide prestigiose per tutto, dalla cucina ai viaggi, non vedo il
motivo per cui l’ADCI non possa diventare l’autorità di
riferimento della Creatività italiana in senso lato. Le migliori
campagne pubblicitarie trarranno un beneficio dalla
vicinanza con progetti d’eccellenza sviluppati in altri campi,
l’affinità sottesa ci consentirà di riguadagnare prestigio.
Un progetto del genere potrà anche trasformare l’annual da
mero costo a potenziale guadagno.
Chi si occuperà della redazione dell’Annual?
Il consiglio direttivo sceglierà ogni anno un responsabile
editoriale il quale, a sua volta, selezionerà i responsabili delle
mini redazioni per ogni settore della comunicazione. Le mini
redazioni si avvarrano del contributo volontario. Uno dei loro
scopi è quello di innescare un interscambio culturale e di
esperienza fra tutti i Soci, sia quelli giovani sia quelli anziani.
Cosa pensi della questione dei fake?
Sono un fenomeno che condiziona, non positivamente, la
visione che i nostri interlocutori in azienda hanno della
nostra maturità professionale. Un protagonista della
comunicazione dovrebbe evitarli.
Cosa pensi della vicenda “Capitolo Freelance”?
Concluderla con quelle modalità è stato uno degli errori più
grandi del passato consiglio (al pari della vicenda con il
probo viro Andrea Concato), una visione davvero miope sul
mercato attuale.
l tuo programma non rischia di portarsi dietro
derive sindacali e perdere di vista la mission
principale dell'ADCI: la qualità creativa del lavoro?
La qualità creativa del lavoro è una diretta conseguenza
delle condizioni del lavoro. Io non voglio trasformare l’Adci in
un sindacato ma sicuramente voglio “operare per la
qualificazione, valorizzazione e sviluppo della nostra attività
professionale” che è uno degli scopi indicato dal nostro
statuto. Ho la ferma convinzione che solo recuperando
credibilità e rispetto riusciremo a produrre lavori efficaci,
rilevanti e di grande qualità. Solo così torneremo a essere
orgogliosi di quello che facciamo. Solo così torneremo a
essere apprezzati sia in Italia sia all'estero.
Chi farà parte del consiglio direttivo?
Non ho ancora deciso chi ne farà parte, ma voglio che sia
fortemente rappresentativo di tutta la categoria: dovrebbe
comprendere creativi “giovani” con esperienza, creativi
“vecchi” con entusiasmo, rappresentanti sia di piccole sia di
grandi strutture, e provenienti sia dalle discipline “classiche
“sia da quelle “emergenti”
Come appoggiarti o farti domande più specifiche?
Ho appena aperto un gruppo su Facebook (Massimo
Guastini e il programma per cambiare l’Adci). Se aderite
potremo discutere e approfondire on line I punti del mio
piano strategico. Ma soprattutto, se avete i requisiti
necessari (3 entry) per entrare nel Club, iscrivetevi. E se
siete fra i tanti fuoriusciti degli ultimi anni, delusi dalla visione
miope e autoriferita del Club, rientrate.
Fatelo prima del 31 gennaio 2011 se volete sostenermi.

venerdì 14 gennaio 2011

HOW DO YOU DO? L’intervento di Andrea Concato


Che aria tira, quali sono le dinamiche che animano il mercato, come cambia il panorama delle agenzie, in quali condizioni versa la creatività chiamata a fare i conti con una sostanziale mancanza di leader carismatici che sappiano difenderne il valore? E le persone, non è arrivato forse il momento di dare loro contenuti un tantino più intelligenti e stimolanti di quanto media e pubblicità abbiano saputo propinare fino a oggi? Infine, quale può essere in un contesto come quello in cui viviamo il ruolo della stampa professionale? A queste domande risponde Andrea Concato, creativo di lungo corso, titolare oggi della sua omonima agenzia di Milano, consulente per alcune aziende multinazionali, e collaboratore dell’agenzia Longari & Loman per la quale contribuisce allo sviluppo. Per quanto riguarda l’ultimo punto del suo lungo e appassionato articolo, quello appunto dedicato alla stampa di settore, posso ribadire quanto già pubblicato nel mio editoriale di fine anno, (vedi la notizia correlata) e confermare che affronteremo, con maggiore attenzione rispetto al passato, le problematiche più rilevanti del nostro settore. In questo senso, grazie all’intervento di Concato, che ci piacerebbe avere quale ospite costante sul nostro sito, e di altri professionisti che seguiranno, ADVexpress intende alimentare un confronto che ci piacerebbe vedere coinvolti anche voi lettori e operatori della comunicazione. È possibile intervenire partecipando al Lato B, il blog di Advexpress ormai attivo da qualche anno (http://advexpress.blogspot.com), scrivendo alla redazione (redazione@adcgroup.it), o direttamente al direttore (salvatore.sagone@adcgroup.it).
La parola ad Andrea Concato.


Buon anno. Secondo me sto’ duemilaundici non sarà mica male.
Ho osservato più di una volta che nei lunghi momenti di crisi si accumula una voglia inespressa di spendere e di godersela. Una specie di elastico che si tira. Normale, giusto e comprensibile.
Si accumula anche denaro. A parte quelli che, con tutto il nostro rispetto, hanno perso il lavoro per la crisi di alcune aziende, gli altri hanno continuato a prendere lo stipendio; gli stipendi sono cresciuti poco più dell’inflazione e Banca d’Italia ci informa che il risparmio si è mantenuto a buoni livelli (10% dell’income famiglie nel 2009, 8% nel 2010). Professionisti, commercianti e imprenditori un po’ si lamentano, un po’ si consolano, molti hanno incassato meno, ma se la cavano. Se c’è del risparmio significa che le famiglie italiane hanno speso meno di quello che hanno incassato.
La verità è che gli Italiani spendono troppo in telefonia e mutui (questi ultimi in crescita inarrestabile, ancora +9,3% in Ottobre 2010), poi fanno fatica sul resto (Istat ci dice che la somma di servizi di telefonia fissa + mobile + internet + acquisto cellulari fa 120 euro a testa al mese. Se una famiglia di 4 persone ha anche un mutuo si arriva in un baleno a gravare il bilancio famigliare di mille euro al mese. Mica male).
Però c’è un accumulo di denaro e di voglia. Sperando che non diventino preda di una prossima bolla finanziaria, possiamo vedere che nelle aziende italiane serpeggiano progetti e dinamiche.

E qui arriviamo a noi.
Nei media, stiamo vedendo che utenti e investimenti ora crescono dappertutto tranne che sulla carta.
(a proposito, sono curioso di vedere come Brasile, Canada e Svezia riconvertiranno parte della loro economia in vista del calo della domanda di carta nel futuro).
Cresce molto il digitale, anche se soprattutto da noi è ancora una frazione troppo piccola delle spese di comunicazione. Cresce tutto il business del digitale, perché ancora così tante aziende sono così indietro nel suo utilizzo, soprattutto per creare un legame oltre che una vetrina o una ”experience”.
Cresce anche il consumo di tv, sia generalista che tematica, con buona pace di chi la dava per spacciata. Il tempo che dedichiamo a uno schermo informatico, fisso, portatile o mobile, si è affiancato a quello che diamo alla tv. E cresce la domanda di spazio in tv. Qualcuno dice che la metà della prossima crescita di investimenti adv la prenderà la tv. E che questa sottostimata richiesta sta rendendo la ripresa più rapida di quanto si aspettasse. Il 6 dicembre Stuart Elliott ha scritto un interessante e documentato articolo sul NYT.com “Still counting on the power of television.”
Dunque, come si dice dagli anni sessanta, c’è trippa per i gatti.
E i gatti come si comportano?

LE AGENZIE.
Negli ultimi anni le agenzie, specialmente quelle grandi che ancora gestiscono una corposa quota del business, hanno subito più di un mutamento ambientale. Provo a elencarli.

Come in ogni altro settore, la moltiplicazione dell’offerta e la necessità di comprimere i costi hanno reso più arrogante la domanda.
Pensiamo che succeda solo a noi, ma non è vero. Negli ultimi anni ogni fornitore è stato compresso. Chiunque venda qualcosa a un’azienda lo sa bene. Anche gli architetti sono messi in gara, non solo dadi & bulloni e fornitori di catene di montaggio o mense. Persino le più prestigiose law-firm. E’ successo. E sono ancora sotto choc.
Pensavamo che “qualitativo” fosse sufficiente? Non lo è più. “Qualitativo + Competitivo” it’s the name of the game. Per tutti.

Molti clienti internazionali delle agenzie internazionali fanno le campagne internazionali fuori Italia. E dalle agenzie stanno sparendo i condottieri creativi. Costosi, ingombranti, traboccanti ego. Ma sapevano trascinare, coinvolgere, spingere, esaltare gruppi di lavoro, clienti, imprenditori, amministratori delegati. Sapevano generare comunicazione rilevante, che faceva succedere qualcosa, di cui le persone si accorgevano e parlavano. Non sempre creativamente eccellenti, ma molto spesso rilevanti. Un’agenzia soffre se manca un condottiero capace di generare una straordinaria propensione all’eccellenza.
Nel nostro mestiere l’eccellenza produce un impatto sul mondo, e genera denaro.
Adoro dire questa frase: “Noi possiamo cambiare il corso delle cose pensandoci su.”
Non conosco imprenditore che non la chieda.
Il problema è riconoscerla. E conosco poche persone fra i clienti e nelle agenzie capaci di riconoscere l’eccellenza che funziona (per averne la prova, è sufficiente accendere la tv).
Per ripetermi cito un film ben scritto di Rob Reiner, dove Michael Douglas fa il Presidente degli Stati Uniti Shepherd, e Michael J. Fox fa il suo assistente Lewis.
Lewis: “They want leadership. They're so thirsty for it they'll crawl through the desert toward a mirage, and when they discover there's no water, they'll drink the sand.”
Shepherd: “People don't drink the sand because they're thirsty. They drink the sand because they don't know the difference.”
Per vendere l’eccellenza è necessaria una reputazione. Per ottenere una reputazione sono necessarie delle doti: competenza vera, talento, virilità, etica, serietà.
Se ci guardiamo intorno e troviamo abbondanza di queste doti, siamo a cavallo. Se non le troviamo siamo in un altro posto.

E’ evidente un travaso di progetti anche rilevanti dalle grandi agenzie a strutture medie e piccole. E da tempo fioriscono le aperture di queste agili e meno costose strutture, spesso abitate da ottimi talenti che si sono formati su conti e in agenzie importanti.
Questo pone due questioni, una per le medie e piccole, e una per le grandi.
Il rischio per la moltitudine di agenzie del primo tipo è un possibile peggioramento ulteriore del rapporto domanda/offerta. La frammentazione dell’offerta in strutture singolarmente meno pesanti non depone a favore. Ancor più nel rapporto con i media, la cui struttura di offerta è in pochissime mani.
Ma c’è un luogo dove la numerosità delle strutture medie e piccole può ricompattarsi e riguadagnare lo spessore politico che non possiede dimensionalmente: nelle associazioni di settore.
Soprattutto AssoComunicazione e Art Directors Club.
Nel nuovo panorama che si sta dispiegando le associazioni sono l’unico ambiente in cui un crescente numero di strutture dell’offerta di comunicazione può giocare un ruolo rilevante nel Paese. A patto che siano gestite con questa missione.
Non sono abbastanza informato sugli ultimi sviluppi di Assocomunicazione, ma posso dire che gli ultimi 3 anni di Art Directors Club sono stati completamente buttati.
Le colpe? Senza tirare in ballo persone che soffrono del male descritto da Shepherd, soprattutto l’assoluta mancanza di senso del bene comune, un Grande Male Italiano. Si fa solo quello che, nel breve, conviene a noi. Anche se poi tutto va in vacca. E’ come il parcheggio in doppia fila. A me fa comodo, ora. Se poi cinquanta auto dietro di me devono rallentare, e allora?
Ad AssoComunicazione una o due cose vorrei chiedere. Tutti siamo concordi nell’augurarci il nostro ritorno alla statura che avevamo nel mercato, parlo di rilevanza, di ruolo, di reputazione. Non sarebbe il caso, in questa direzione, di iniziare a tirare delle righe? Di qua le strutture in grado di rispondere con organizzazioni e talenti adeguati a tutti i bisogni nelle varie discipline della comunicazione, con un unico disegno capace di lanciare, sviluppare, consolidare una marca e di là le strutture specialistiche capaci di fare uno o alcuni dei mestieri? Per essere percepiti come seri, non dovremmo cominciare ad esserlo? Non è che ci fa bene continuare a permettere a chi fa eventi (con tutto il rispetto) di scrivere in homepage “Brand building communication projects”.
E vogliamo iniziare a spiegare agli scaltrissimi uomini di marketing che lo praticano cosa stanno comprando per mille euro sul social network creativo? E quanto vale? E che odore ha?
Per le grandi agenzie invece, secondo me si presenta una bella sfida. Quella di replicare il modello di business delle medie e piccole.
Se il costo dei talenti è il medesimo, se il costo dei metri quadri è il medesimo, come possono le grandi agenzie ristrutturare le spese generali per ottenere un’incidenza pari a quelle delle altre? Una grande agenzia non è forse il risultato dell’affiancamento di team come nelle altre, solo più numerosi? Quali sono i componenti delle procedure che rallentano e appesantiscono?
Io posso solo notare che poco prima di Natale, mi è stato riferito che davanti all’ingresso di una grande agenzia internazionale un gruppo di persone stava andando a una riunione da un grande cliente. Erano in sette. Ora, a meno che non si trattasse di un lancio pan-europeo, cosa che dubito, cosa ci faceva quell’esercito? E in che tipo di fattura può trovare conforto una missione così? Con quale causale?
Prima o poi si dovrà chiedere ai clienti di accorciare la catena delle presentazioni in azienda, portando i progetti nel più breve tragitto possibile di fronte al decision maker. Chi non lo è non può per sua natura mettere la testa su una campagna che ha assenza di precedenti e coraggio. Peccato che siano due componenti fondamentali di una buona campagna.
Il che ci porta diritti diritti a

I CREATIVI
Io sono uno di questi, soffro e ho sofferto di tutto il bene e il male della categoria, nella mia vita professionale che conta qualche annetto (ciumbia, quest’anno sono 38).
Molti miei colleghi sanno riconoscere una campagna di alta qualità creativa.
Ma non so quanti di noi sanno riconoscere una campagna che fa il lavoro che è chiamata a fare.
“We are creatives, and we definitively are in business”.
Chi non pratica questo, chi crede di fare della creatività tout court forse dovrebbe considerare altri mondi professionali, più accoglienti.
Se poi presentiamo e vendiamo direttamente al decision maker, è molto meglio che non presentiamo alcunché di velleitario, ma solo progetti molto brillanti, molto unici, molto efficaci.
Efficace vuol dire che funziona, non che piace al direttore creativo dell’agenzia all’altro lato della strada. Almeno non solo.
Credetemi, se un capace e indaffarato AD mette fra noi e lui tre middle manager del marketing è solo perché ha paura che gli facciamo perdere del tempo con le nostre illusioni creative. Questa paura va rimossa, e forse rimuoveremo anche le limature, gli ammorbidimenti, i test, gli animatic, le doppie versioni, le consulenze dei sociologi e degli psicologi (aaaarrgghh!!).
Non è mestiere per creativi chiusi nel loro mondo oligoriferito, proprietari di codici e culture aristocratiche, replicanti di modelli del circuito dei premi internazionali (spesso falsi) sospettosi e rancorosi verso chi non li capisce. Il modulo narrativo di un poster brasiliano falso non può essere adatto a un prodotto popolare italiano, anche se il fatto di essere riusciti a replicarne il livello ci può riempire d’orgoglio.
I creativi italiani hanno uno strabordante talento. Lo dimostrano ogni volta che vanno a lavorare e a confrontarsi in altri Paesi. Ma siamo tutti prigionieri di un inappagato bisogno di vedere riconosciuto il nostro valore e di un necessario training sull’abilità nel riconoscere cosa può far succedere qualcosa e cosa no. Imparando anche il perché.
Solo così possiamo sperare di far capire ai nostri committenti che noi siamo capaci di far lavorare ogni loro euro per sette, con una nostra idea.
E solo così potremo imparare davvero a parlare con

LE PERSONE
Qui io sono convinto da tempo che si sia caduti trappola di un antichissimo gigantesco equivoco.
Che esista la casalinga di Voghera.
Che esista cioè una manichea classificazione di persone in cluster dai tratti omogenei.
E’ il presupposto che guida i programmatori televisivi, i giornalisti, i pubblicitari, gli autori cinematografici a confezionare prodotti di imbecillità abissale e di perversa turpitudine cerebrale “per le persone a cui piace quello”, e prodotti senza speranza di pubblico “intelligenti per le elite”.
Solo risalendo a criteri così rigidi si può giustificare l’esistenza di certi film, di certi spot, di certi programmi tv, di certi giornali.
Secondo me il principio è sbagliato. Perché dentro ciascuno di noi si nasconde una parte nobile e una parte ventrale. Sono gli stimoli ambientali che ci influenzano ad usare una o l’altra parte.
Infatti conosco teste finissime che non perdono una puntata dell’Isola dei famosi. Conosco pensatori profondissimi che non disdegnano la lettura di Chi. Conosco fruttivendole di Cosenza che leggono Baricco. E ho visto, ve lo giuro, la casalinga di Voghera alla mostra di Caravaggio all’Arengario di Milano.
Volete le prove?
I numeri fatti da “Vieni via con me”. Sono numeri importanti. Che chiedevano un po’ di intelligenza alla tv.
La votazione degli utenti, nel 2009, al Premio della Televisione della Rai che ha incoronato come miglior programma “Che tempo che fa”.
Il nuovo Museo del Novecento di Milano che ha accolto 200.000 visitatori solo nel primo mese di apertura! Tutti sono usciti di casa e si sono messi in coda!
Ditelo per favore a quelli che pensano che solo Domenica 5 con Barbara d’Urso sia popolare.
Io mi sono permesso di scriverlo insieme a Lele Panzeri in uno spot per Tele+ di qualche tempo fa: “Vedere cose belle ci rende più belli. Ascoltare cose intelligenti ci rende più intelligenti”.
Quando si capirà che l’intelligenza è una caratteristica popolare, e non tanto l’imbecillità suo contraltare, allora potremo tutti quanti produrre una comunicazione più intelligente.
E forse contribuire a diventare un popolo più intelligente. (e poi più serio? e poi più etico? e poi?)
Perché la comunicazione intelligente è quella capace - miracolo! - di legare i marchi e le persone, magari anche per lungo tempo, perché i valori in ballo non saranno più solo “mi piace” e “mi fa ridere”, ma anche “rispetto”, “ammirazione”, “amore”. In fondo sono i sentimenti con cui ci facciamo una sola sera di sesso, oppure ci sposiamo.
Alzi la mano il cliente che non vorrebbe che i suoi clienti provassero a lungo tali sentimenti per la propria marca.
Si può fare.
(anche se non certo con le battute da bar degli anni ’60 né con le famiglie che improvvisano uno sventato musical quando la mamma presenta le polpette in tavola)

E vorrei concludere, giusto per impertinenza verso l’ospitalità con

LA STAMPA DI SETTORE
Intendiamoci, così come il cinema, la letteratura e la pubblicità, la stampa di settore non è tutta uguale e non si può generalizzare.
Ma a leggere la nostra stampa siamo tutti eroi che fanno cose meravigliose e badilate di denaro.
Sogno di leggere di più di fatti, fenomeni e persone non raccontate da loro stessi.
Ho letto l’editoriale di inizio anno di Sagone e sarei andato da lui a proporgli di sposarmi.
Si sente il bisogno di una penna che testimoni la realtà dei fenomeni e delle loro dinamiche.
Ho un mucchio di domande a cui vorrei che la nostra stampa rispondesse.
Perché quello se n’è andato, perché quelli così bravi non hanno abbastanza successo, perché quegli altri così palesemente incapaci sfornano una campagna invisibile dopo l’altra, perché con quella campagna si buttano tanti denari pubblici, perché quel famoso personaggio se non scrive sotto “questa è una campagna per xxx” nessuno la capisce eppure gli fanno fare un progetto dopo l’altro, perché quel cliente mette di nuovo in gara la marca dopo che la sua agenzia le ha dato tanto valore (troppe ne avrei)?
Indagando, chiedendo in giro, chiedendo ai protagonisti e ai ragazzi del bar (quante ne sanno i ragazzi del bar!), chiedendo sulla tolda di comando ma anche in sala macchine.
Io penso che la stampa di settore potrebbe avere un ruolo fondamentale in un duemilaundici migliore. Raccontando, misurando, confrontando, svelando sempre con in mente la meta e la strada: una comunicazione migliore, per un’economia migliore, in un Paese migliore.

Andrea Concato