Giornatona. Chiuso dentro al cubo di cemento, da stamattina salto da un teatro all’altro. Per raccontarvi tutto quello che ho sentito, di cui ho discusso o che ho assorbito per via ipodermica, ci vorrebbe un volume delle pagine gialle. Ma due parole sul seminar di Contagious e Leo ve lo devo.
Paul Kemp Robinson è il direttore editoriale di una rivista che non fa concorrenza a Shot sul piano della documentazione, ma su quello della costruzione di cultura. Nel mini show gestito assieme a Kevin Flatt (ECD di Arc USA) e a Marc Giusti (nessun legamo con l’uomo di Blog, ma in realtà Group Chief Digital Officier di Leo Burnett UK) affronta il tema su cui tutti rimuginano e che nessuno osa affrontare: ma non è che con gli User Generated Contents le agenzie non avranno più niente da fare?
Con eleganza, senza dirlo apertamente come faccio io, i tre ribadiscono che c’è ancora un fortissmo legame tra lo storytelling e la costruzione delle marche. Planando su 5 mila anni di storia della cultura si scopre che nulla è cambiato, nonostate le accelerazioni tecnologiche. Ci sono frasi di Confucio che ancora sembrano perfette per la pubblicità delle mega brands.
Analisi dopo analisi, si arriva a 7 formati narrativi, che poi non sono altro che i formati storici delle storie pubblicitarie. Anche le case history presentate sono intelligentemente orientate a dimostrare che anche in un mondo in cui Facebook, Twitter e You Tube sono i nuovi media, se non ci sono copywriters ed art director di talento, capaci di raccontare storie appassionanti sulle marche, nulla succede. E sopratutto i consumatori non producono le loro, di storie.
Per la cronaca , la catalogazione dei format è la seguente: Comedy, Tragedy, Fantasy (definita Overcoming The Mirror), Viaggio e Ritorno, Quest, Arricchimento, Rinascita. Se vi andate a prendere le carte di Propp o un buon libro di Rodari, niente di nuovo. Ma la sala apprezza e segue attenta, molto probabilmente composta da ragazzi che a scuola non hanno mai studiato o letto troppo. Di sicuro il tema dello story telling continua ad essere fortemente coccolato al festival, come l’anno scorso: è cruciale che I creativi nativi digitali non dimentichino che la differenza la fanno e la faranno sempre le storie, non i billion dollars delle pianificazioni o i sotware di nuova generazione. L’anno scorso una campagna candidata al Grand Prix, aveva come claim. “There are stories. And There are the HBO Stories”. Non si può che essere d’accodo con I relatori: cambia tutto, ma non la capacità di intrattenimento dei bravi narratori. Per via orale, come sul digitale.
Curiosità di chiusura: in un instant survey, realizzato in sala via Twitter ed sms, una short list composta da sei marche famose per raccontare belle storie (Guiness e simili) vede prevalere nel voto del Debussy, guarda un po’, Apple. Se siete bravi, provate ad indovinare cosa ha votato il vostro cronista, trafficando sul suo iPhone.
mercoledì 24 giugno 2009
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