martedì 16 febbraio 2010

Lettera dall'Inferno.


Ho letto sulla lista dell’adci un messaggio di un collega che stimo molto,
uno dei migliori direttori creativi italiani, che ha deciso di non iscriversi più al club che dovrebbe raccogliere
la crema della categoria.

Vi copio alcune parti della lettera, mondate di tutti i riferimenti che potrebbero permettere di identificare lo scrivente.

Quello che è importante, a mio modesto giudizio, non è chi scrive (tanto se vorrete potrete scoprire in pochi minuti di chi si tratta), ma il contenuto della lettera.

Che descrive un’industria allo sbando, al seguito di un paese che sarà stato anche il più bello del mondo, ma oggi vive sotto la luce decadente della fine di un sogno scintillante.

Leggete la lettera come un reportage dall’inferno di quella che era la professione più bella e divertente del mondo.
Io penso che può continuare ad esserlo, rivedendo le storture.
Ma per poter agire, bisogna aprire gli occhi.
Non solo sperare di avere fortuna, come il finale della lettera indica:


“ (…) la risposta più esauriente che posso dare è che non rinnoverò l’iscrizione all’Adci.
(…)
Credo infatti che al di là di modalità più o meno formalmente corrette o al contrario più o meno irrituali di gestione ed espressione di indirizzi o decisionalità, il problema – quello che mi riguarda – affonda le sue radici in qualcosa che precede la gestione, e che condizionerebbe in modo radicale qualunque gestione del club. Anche la più consona ai miei orientamenti. Anche la più attenta alle procedure. Anche la più rispettosa degli statuti.
Il problema – ripeto: quello che vedo io, magari non è l’unico e neppure il principale – risiede nel fatto che il club non può che essere rappresentativo delle motivazioni, della cultura condivisa e della scala di valori professionali che ispirano e orientano la maggioranza della comunità creativa nazionale, non solo di quella parte iscritta al club o attiva dentro e intorno al club.
Da quello che vedo e sento, e perfino da quello che mi pare di intravedere dietro i discorsi di parecchi nostri colleghi che sostengono di essere disallineati rispetto ai trend io credo che la maggioranza dei creativi italiani – essendo degli italiani prima ancora che dei creativi – non trovi nulla di strano a lavorare con la mano sinistra mentre passa il 70% del tempo su facebook a scambiarsi animaletti virtuali e messaggini coi puntini di sospensione. Né nell’idea di iscrivere a un concorso che ha premiato i lavori di Pino Pilla, di Sandro Baldoni o di Emanuele Pirella degli esercizietti di photoshop firmati da un parrucchieredell’hinterland. Né nel fatto che il loro direttore creativo è sempre pronto a incolpare i clienti per le cagate che escono, e altrettanto pronto a prendersi tutti i meriti dei pochi lavori dignitosi che vedono la luce (quella del mondo esterno) trascurando che ci vuole molto, ma molto più coraggio a pagare una bella campagna che a presentarla. Né nel mandare non solo nell’annual ma anche in onda dei film copiati dalle reel di Cannes di dieci anni prima.
Loro farebbero lo stesso, se ne avessero la possibilità o l’occasione. E di fatto lo fanno, a quanto pare.

In questi anni non ho visto soltanto ignorare o disperdere o distruggere le poche case history civili nate chissà come in un paese che fa dell’inciviltà un fatto identitario. Non ho visto solo le gare truccate, le commissioni dissanguate, le ristrutturazioni strumentali e quelle inevitabili, la crescente presa del narcisismo dei comunicatori e il declino inarrestabile del senso e della funzione della comunicazione, la valorizzazione del nostro lavoro azzerata e la soglia del pudore professionale abbattuta.
Ho visto anche riempire le grandi agenzie di schiavi a vita al secondo, terzo e anche quarto stage perché la stragrande maggioranza dei direttori creativi italiani è convinta che garantire dei rapporti di lavoro almeno dignitosi fra l’agenzia e i suoi diretti sottoposti di reparto non rientri fra i suoi compiti.
Ho visto i giovani aspiranti copywriter mostrarmi dei book pieni di imitazioni di imitazioni di Archive senza body copy e perfino senza titoli – giusto due paroline in inglese imparaticcio accanto a un piccolissimo logo - perché così gli era stato consigliato nei precedenti colloqui. 
Ho visto la pressoché intera comunità creativa rovesciare per settimane torrenti di livore, turpitudini e meteorismi cerebrali in forma anonima dentro un blog aperto da una casa di produzione fino a consigliarne la chiusura.
Ho visto esibire come prova dell’effettiva messa in onda di un lavoro creativo una fattura da 30 euro per un solo passaggio radiofonico.
Ho visto le discussioni in lista trasformarsi in corride, e certe polemiche – forse anche a causa della sciatteria e dell’equivoca atonalità della posta elettronica – assumere qualche volta truci e patetiche posture degne di un comizio di Borghezio o di un confessionale del Grande Fratello. 
Ho visto una pressoché compatta generazione di brillanti (in qualche caso anche geniali) creativi escludere dalle giurie dell’Adci le stesse persone che avevano attribuito loro i famosi “premi degli ultimi cinque anni” che hanno fatto decollare le loro carriere accusandoli non solo senza pudore ma anche senza alcuna logica di essere un freno al ricambio generazionale.
Ho visto Lele Panzeri lasciare il club nell’assoluto disinteresse di centinaia di creativi che senza le sue campagne non avrebbero mai neppure immaginato che nel paese di Carosello e di Toscani si poteva riempire gli spazi media con qualcosa di diverso da un mucchio di merda.
Ho visto la più grande cooperativa di consumatori italiani chiamare in gara un’agenzia con sede in un paradiso fiscale, nel più assordante silenzio della nostra congrega.
Ho visto me stesso a trent’anni che cercavo di studiare e di capire le campagne che avevano cambiato la storia della pubblicità, ma anche quella dell’industria e qualche volta addirittura la mentalità collettiva – e che avrei dato un braccio per sedermi in una giuria con Michele Rizzi e Pasquale Barbella (come viene da fare a tutti gli esseri umani che non restringono il campo delle proprie attività all’esposizione di sé e del proprio ego; e come continuano a fare i giovani registi di cinema ai quali non verrebbe neppure in mente di escludere Francis Ford Coppola o Mario Monicelli dalle giurie dei festival perché nelle sale c’è Avatar in 3D: anzi il primo a protestare per una follia simile sarebbe proprio Cameron). 
Alla fine mi sono visto – mi vedo tuttora – ancora più che “contro”, principalmente lontano.

Perciò approfitto un’ultima volta di questa lista per salutare, (…) augurando a tutti coloro che fanno questo mestiere, in un modo o nell’altro, buona fortuna.
Perché con questo andazzo non sarò il solo ad averne un disperato bisogno.”

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