mercoledì 2 febbraio 2011

Barbella: Ripartire da zero e tornare a vendere idee.


Riprendiamo qui l'intervista che Salvatore Sagone, direttore di ADVExpress, ha realizzato a Pasquale Barbella, pubblicata ieri sul giornale, all'interno di un dibattito in corso sul presente e sul futuro della comunicazione. Speriamo che il postarla qui permetta a tutti di poter riflettere sulle opinioni di un decano del nostro mestiere.


Come si è ridotta la pubblicità italiana, qual è il significato della parola creatività oggi, quali prospettive ha nel nostro paese? E, ancora, perché non ci sono più maestri, leader carismatici, e cosa si dovrebbe fare per uscire dalle secche? Queste sono alcune delle domande che gli addetti ai lavori si pongono, esprimendo un sostanziale disorientamento nei confronti del futuro di questa industria. Quando in giro c’è incertezza vale la pena ogni tanto confrontarsi con chi, nel recente passato, ha fatto qualcosa di buono.
Il mio pensiero è andato subito a Pasquale Barbella, maestro e protagonista come pochi altri della pubblicità italiana dagli anni settanta al 2003. In quell’anno si è ritirato dal business ma continua a seguire con passione, e con occhio critico, il mondo della comunicazione. L’intervista affronta e mette in luce molte problematiche che fanno parte del dibattito in corso, alimentato da ADVexpress attraverso gli interventi di coloro che abbiamo fino a oggi coinvolto (Costa, Usuelli,Tranchini, Concato, Nenna, Broglia, ecc) e di quelli che coinvolgeremo. La sua visione della realtà pubblicitaria e non nella quale viviamo non lascia spazio a un grande ottimismo. La pubblicità, la comunicazione, afferma, sono lo specchio preciso della situazione politica e sociale del nostro paese. E gli utenti sembrano ancora preferire formule ‘arcaiche’ di comunicazione nonostante lo sviluppo delle opportunità offerte dalla tecnologia. Insomma, sostiene Barbella, non c’è un clima favorevole alla professionalità. Infatti, è sempre meno pagata.
Come se ne esce, dunque? Ripartendo da zero, liberandosi delle etichette come creativo, account, ecc., a favore di nuove forme di pionierismo animato da consulenti culturali disposti a commerciare idee anziché routine.
Con Barbella abbiamo inevitabilmente affrontato anche il tema dell’Art Directors Club che a breve deve rinnovare i propri organi direttivi. Scopriamo che ha una grande ammirazione per l’unico candidato attualmente uscito allo scoperto in maniera chiara e ufficiale, Massimo Guastini. E lo spazio va dato, conclude, a chi è disposto a darsi da fare per ottenere risultati indipendentemente dalla dimensione della compagnia in cui opera.

Nella storia della pubblicità italiana tu sei sicuramente uno dei punti di riferimento più importanti. Hai scritto pagine importanti come copywriter, hai fondato un’agenzia che rapidamente si è imposta tra le più creative del mercato. Per ricordare solo alcune delle tue campagne citiamo Swatch, Infostrada, Lacoste, Wind, ecc… Hai inoltre scritto articoli e saggi, un romanzo, e sei stato per ben due volte presidente dell’ADCI, nell’87 e nel ’93, entrando a fare parte anche nella Hall of Fame del Club. Alla fine della tua carriera sei stato anche membro del D’Arcy Worldwide Board of Directors e leader creativo D'Arcy per l'Europa. Dal 2003 non sei più coinvolto in maniera diretta nella pubblicità, ma continui ad occupartene insegnando comunicazione pubblicitaria in un master del PoliDesign.

1. Cosa pensi della comunicazione pubblicitaria italiana che oggi vedi sui mezzi tradizionali e non?

Il mio giudizio sulla pubblicità italiana - presa nel suo complesso - non è mai stato troppo lusinghiero, ma oggi è più preoccupato che mai. Non ne faccio una questione meramente estetica: il degrado della comunicazione corrisponde puntualmente all’immiserimento politico, economico e sociale del momento. Il lavoro creativo ha perso molto del suo peso; mai era stato così sottovalutato come adesso; è diventato un esile accessorio del commercio, un po’ come i sacchetti di plastica del supermercato, con i quali condivide lo status di oggetto inquinante, obsoleto e cheap. Non sono il solo a dolermi della crisi specifica del mercato pubblicitario; ascolto le voci di molti ex colleghi e giovani approdati alla professione in questi anni, e il loro disagio è ancora più intenso del mio, che ho la fortuna anagrafica di potermene stare in disparte. Le crisi del passato venivano spesso assorbite e superate con qualche scatto d’immaginazione; tanti colleghi coetanei concordano nel considerare gli anni Settanta come il periodo più eccitante della nostra pubblicità dal secondo dopoguerra in poi: eppure quelli erano anche gli anni del piombo e dell’austerity, non c’era certo da stare allegri. Abbiamo perso fiducia nella ragione e nell’avvenire, grazie a una involuzione politica e istituzionale che non esito a definire sciagurata e i cui risultati si vedono dappertutto. Sono davvero curiosi i paradossi e le contraddizioni che stiamo vivendo. Paradosso n. 1: la pubblicità di oggi è profondamente inattuale, dunque attualissima. Inattuale in quanto astratta, farsesca, elementare nei simboli e primitiva nei linguaggi; attualissima perché è lo specchio spietato di come si è ridotto il paese. Paradosso n. 2: la committenza sembra esigere idee arcaiche nel momento del massimo sviluppo delle tecnologie, con l’effetto di allargare il gap fra ciò che si sceglie di fare e le opportunità disponibili. Che è come gettare l’ostrica nella spazzatura e mangiare la conchiglia.

2. Quale significato ha oggi la parola creatività?

Mi piacerebbe poterti rispondere che la parola “creatività” non può cambiare di senso a seconda del giorno e dell’ora: la definizione che ne dà Annamaria Testa nel suo ultimo libro (bellissimo anche il titolo: “La trama lucente”) mi sta particolarmente a cuore: «Qualcosa di nuovo e di utile per la collettività». Semplice, no? Ecco; quella che vedo intorno è vecchia e inutile: talvolta persino dannosa. Ma tu vuoi sapere, credo, se oggi si intende con quella parola qualcosa di diverso rispetto a ieri. Devo ammettere che anche in passato la parola “creatività” si è rivelata massimamente ambigua. Tutti la volevano, a parole; ma per ciascuno era una cosa diversa. La creatività che piaceva alla Star non era la stessa che piaceva alla Swatch, per esempio. Oggi non saprei quali modelli di creatività valgano un buon prezzo sul mercato. Mi dicono che le aziende sono disposte a pagare sempre meno. Nessun tipo di linguaggio, dunque, sembra meritare - da parte degli investitori - l’esborso di un prezzo ragionevolmente commisurato all’impegno richiesto. Ciò è molto grave, e disorienta chi fa il mestiere che ho fatto io.

3. Cosa le agenzie dovrebbero fare per uscire ‘dalle secche’ in cui si trovano?

Non lo so e francamente non mi interessa. Il destino delle agenzie non mi riguarda più. Mi commuovono di più il presente e il futuro dei singoli operatori: i migliori, naturalmente, cioè quelli che hanno talento, immaginazione, cultura, onestà intellettuale e voglia di andare controcorrente. Perché dovrei agitarmi per il mondo del business? I financials delle multinazionali hanno fatto di tutto per rovinare i propri gioielli; si fottano. Mi dispiace solo che a pagare per i loro errori o la loro avidità sono e saranno gli incolpevoli.

4. Eppure, anche tu come quasi tutti gli imprenditori indipendenti di questo settore hai ceduto l’agenzia fondata insieme ai tuoi soci, la BGS, al ‘nemico’, ai ‘financials’ di cui parli, ossia alle grandi holding finanziarie. Mi ricordo dei rapporti con DMB&B, poi integrata in Leo Burnett, e controllata oggi dal gruppo Publicis. La decisione, allora, di vendere fu per capitalizzare il frutto del vostro lavoro, o vi era alla base anche qualche altro motivo? Insomma, le tue parole sanno di pentimento. Tornando indietro rifaresti la stesa scelta?

L’agenzia che ho fondato nel 1990 insieme ai soci di Torino era già una multinazionale: quando stringemmo l’accordo, la CGSS aveva Bélier come socio di maggioranza. Bélier era parte del gruppo Havas; poi, in seguito a vari mutamenti di quel network, ci trovammo nello stesso circuito della Euro RSCG, con l’imbarazzo di gestire la comunicazione Fiat in una maison dedicata a Citroën. La Fiat sapeva e tollerò per tre anni quella convivenza; poi ci consigliò caldamente di cambiare partner e di sposarci con DMB&B, che già operava per Fiat sulla scena internazionale. Ma, indipendentemente da tutto ciò, devo dire che la mia insofferenza per i network e i financials è scoppiata molto più tardi. Io ho sempre lavorato in network internazionali e li ho considerati rispettabili fino alle soglie del 2000. Ho iniziato la carriera in CPV, un piccolo network britannico (Colman, Prentiss and Varley) che aveva a Milano la sua unit più importante e meglio sviluppata. Quella piccola rete fu poi acquisita dalla statunitense Kenyon & Eckhardt, con la quale ebbi sempre dei rapporti estremamente civili. A sua volta, la Kenyon & Eckhardt fu in seguito acquisita dalla Bozell & Jacobs. Subito dopo l’intero sistema transitò per breve tempo in casa d’un terzo acquirente, la Lorimar Productions di Los Angeles, una major della televisione ('Dallas' era una loro creatura) che aspirava ad allargare il proprio business in tutte le aree dello spettacolo, dei media e della comunicazione. Dopo un solo anno la Lorimar ci scaricò, assillata da problemi finanziari a seguito di un flop hollywoodiano. I dirigenti al vertice della Bozell si indebitarono per ricomprarsi le quote. In Italia avevamo problemi - la BJKE non tirava a dovere - e il network che avrebbe dovuto aiutarci non poteva farlo perché aveva più rogne di noi. Fu in quella circostanza che cominciai a dubitare del vantaggio effettivo di stare in una multinazionale. In Italia tamponammo la crisi con un nuovo assetto azionario e strategico, entrando in partnership con una compagine di investitori guidata da Luca di Montezemolo. Gli esordi furono eccellenti, ma quando Montezemolo passò a occuparsi full time dell’organizzazione dei Mondiali di calcio ricominciammo a soffrire. A quel punto colsi la sfida di ricominciare da zero con la sede milanese, tutta da costruire, di una nuova entità chiamata BGS. Come ti dicevo, eravamo soci di minoranza dei francesi. Non ci diedero mai fastidio; ci trattarono bene anche perché i nostri clienti erano stati tutti conquistati sul campo. Erano nostri. Verso la fine del 2002, la Publicis comprò il sistema Leo Burnett e il sistema D’Arcy (con i vari accessori: centrali media, direct marketing, web agencies etc.). La prima decisione fu di sopprimere il network D’Arcy, che su scala mondiale era sofferente ma vantava in alcuni paesi (a cominciare dal nostro) tre o quattro agenzie-gioiello. Fu chiarissimo, allora, che le megadecisioni dipendevano dalla volontà di un gruppuscolo di ragionieri. La BGS fu fatta letteralmente a pezzi: i resti furono divisi tra Saatchi & Saatchi (che ereditò il nostro hub dedicato alla Procter & Gamble), Leo Burnett (che incorporò la nostra sede torinese) e Publicis (che incorporò quella di Milano). Fine della festa. Che devo aggiungere? Sono troppo onesto per non ammettere che qualche responsabilità l’abbiamo avuta anche noi, i soci italiani (che però non detenevano più quote avendole cedute, per contratto, nel corso del tempo). Gagliardi ed io eravamo orientati a concludere la carriera. Non posso escludere che gli americani-venditori e i francesi-compratori abbiano temuto che una BGS senza i suoi soci fondatori non sarebbe stata la stessa di prima. Ciò tuttavia non giustificava la soppressione immediata della quinta agenzia del mercato italiano, una società che aveva fatto faville basandosi unicamente sulla qualità professionale, che aveva raggiunto eccellenti risultati sia nel fatturato che nella reputazione creativa, e che un’indagine aveva indicato (unica nel suo settore) tra le venti aziende ideali in cui lavorare.

5. A proposito di fusioni, la storia sembra ripetersi in questi giorni con la generazione che vi ha seguito: Saffirio junior, Tortelli e Vigoriti. Sembra imminente la loro fusione in DDB. Cosa pensi di questo passo, quali consigli ti sentiresti di dare ai ragazzi che pure tu hai contribuito a formare?

Mi guardo bene dall’interferire: Saffirio, Tortelli e Vigoriti non hanno certamente bisogno dei miei consigli. Emanuele Saffirio è di casa nell’environment internazionale dell’advertising da quando aveva poco più di vent’anni e conosce quell’ambiente come le sue tasche. Il problema non è con chi ti metti; sorge nel momento in cui il tuo partner internazionale cambia identità - come è continuamente successo nel mio caso, fin dai tempi della CPV. Non credo che sia utile ai lettori addentrarsi, in questa conversazione, nei singoli casi. I problemi e le opportunità del momento, quelli da cui è partito il nostro discorso, sono di più ampia portata e si generano all’ombra di una crisi epocale. Ciò costringe gli operatori in campo a rivedere o espandere il proprio raggio d’azione; a riplasmare posizionamenti, attività e linguaggi con qualche anticipo rispetto ai macrofenomeni; a cavalcare il cambiamento anziché farsene travolgere. Quella che hai citato è un’agenzia che è riuscita a conseguire successi proprio negli anni più sfavorevoli: segno che lì dentro hanno la competenza e le palle per difendersi dai pericoli. Chapeau.

4. Voltiamoci ancora indietro per capire meglio cosa sta succedendo oggi. Tu fai parte di quella generazione che ha prodotto talenti di indiscutibile valore, veri e propri ‘Maestri’ della comunicazione: carismatici, rispettati e spesso coinvolti a commentare i fenomeni sociali e di costume del paese. Quando tu e i vari Pirella, Sanna, Mignani, per citarne alcuni, entravate in una riunione il cliente si alzava in piedi, vi ascoltava con grande interesse e, ancora una volta, con grande rispetto del vostro ruolo (e, forse, anche per questo la creatività italiana riusciva a dire la sua nei festival internazionali). La domanda è: perché secondo te non ci sono più leader carismatici, di cui si sente oggettivamente la mancanza, cosa è successo?

Tu dici che se ne 'sente oggettivamente la mancanza': io avrei qualche dubbio in proposito. Se il mercato si sentisse realmente orfano di leader, se li inventerebbe da oggi al domani. Prendi l’eterno problema delle gare e del prezzo al ribasso. Se un’azienda continua ad avvalersi di un espediente così impersonale e bizzarro, vuol dire che non le interessano le capacità e le competenze di Tizio o di Caio; pesca nel mucchio perché è solo a caccia di un piccolo scoop da brandire nei prossimi sei mesi. Come se per curare la sciatica si giocasse al gratta-e-vinci anziché andare dal medico.

5. Sei d’accordo che le generazioni che vi hanno sostituito sono andate via via impoverendosi di quel carisma e, forse, di quelle capacità che avevate voi? E’ possibile che la pubblicità ha perso la sua forza innovativa che ha conosciuto da Carosello in poi? Insomma, cosa è successo, e cosa sta succedendo?

La parola 'carisma' mi mette a disagio: la associo a Landru e Berlusconi, due spacciatori di caramelle dai quali non accetterei mai un invito a cena. Né posso dare per scontato che quelli di prima (me compreso) fossero più in gamba di quelli di oggi: sarebbe contrario a ogni legge statistica. Posso solo pensare che i Pirella, i Sanna, i Mignani e altri come loro sono stati apprezzati e stimati grazie a un clima favorevole alla professionalità; un clima che nel frattempo è precipitato sotto zero. Sono fermamente convinto che non si possa comprendere l’evoluzione di alcunché a prescindere dal contesto storico: e ciò riguarda a maggior ragione la pubblicità, che è una schietta funzione dell’economia di mercato e della cultura mediatica - due soggetti alquanto sofferenti di questi tempi.

6. Secondo te, le aziende e i pubblicitari sono consapevoli che la pubblicità ha una grande responsabilità nello sviluppo culturale e civile del paese?

Da come imposti la domanda, si presumerebbe che il ruolo educativo della pubblicità dovrebbe essere superiore a quello della scuola e delle istituzioni. No, spero che non sia così. Meglio: distinguiamo. Le aziende sono le aziende, i pubblicitari sono un’altra cosa. Le aziende, quelle sì, potrebbero e dovrebbero sentire fortissima la responsabilità che dici; ma si comportano come se gli altri non esistessero. Molte non hanno più una patria geografica, a causa dei rischi e delle opportunità della globalizzazione; altre si sono deresponsabilizzate persino nei confronti della propria clientela, dirottando i servizi di assistenza e le eventuali proteste sui cosiddetti call center. I pubblicitari hanno meno potere, meno voce in capitolo. Sarebbe bello, ovviamente, che si sentissero anch’essi eticamente impegnati (e so che molti di loro lo sono) a trattare il pubblico e sé stessi con maggior rispetto; ma non puoi cambiare l’Italia con la pubblicità, se la classe dirigente di turno fa di tutto per rimbambirla. Mi ritorna in mente quella frase di Bernbach: "Tutti noi che operiamo con i mass media abbiamo nei confronti del prossimo una grande responsabilità. Possiamo aiutarlo a elevarsi di un gradino o imbarbarirlo...". Diciamo che nell’Italia di oggi le opzioni del pubblicitario sono tristemente cambiate: possiamo lasciare il prossimo così com’è o collaborare attivamente alla sua liquidazione finale.

7. Come la rivoluzione digitale sta cambiando e cambierà il mestiere del pubblicitario? E, più in generale, come cambierà questa professione?

Conosco già una dozzina di giovani professionisti italiani del digitale emigrati all’estero: New York, Sydney, Londra, Parigi. La BGS fu tra le prime agenzie di pubblicità a dotarsi di una web agency interna; ricordo ancora la riluttanza dei clienti a pagare quel servizio in modo adeguato. L’Italia di oggi è un paese irrimediabilmente antiumanistico e antiprogressista: siamo costretti a preoccuparci di valori e diritti a rischio come la Costituzione, l’indipendenza della magistratura, la libertà di stampa, la priorità del lavoro, etc. etc., come se fossimo di colpo ripiombati nell’età della pietra. Come cambierà questa professione? In un paese sano potrebbe diventare di nuovo qualcosa di eccitante: tante straordinarie possibilità che prima non c’erano; nuovi modelli di imprenditoria; l’imagination au pouvoir. In un paese malato come il nostro, che sputa anche sulla propria unità e sui relativi simboli, c’è da sperare soltanto in un cambio di rotta radicale, nella fine del colera: ci sono miracoli che nemmeno la tecnologia può fare. Ad ogni buon conto, dal momento che col pessimismo non si risolve nulla, direi che sarebbe utile ricominciare da zero. Auspico nuove forme di pionierismo, del tutto alternative ai modelli di mercato preesistenti: la nascita e l’affermazione di piccoli gruppi di consulenti culturali, disposti a commerciare idee anziché routine, pronti a modificare le procedure e i linguaggi cui siamo abituati - a partire dallo slang di settore. Non ha più senso avvalersi delle categorie (sostanzialmente retoriche) che furono utili in passato: non sarebbe male liberarsi una volta per tutte di etichette come Creativo, Account, etc., non perché la qualità dipenda dalle denominazioni, quanto per esercitarsi a reinventare o rimodellare il proprio mestiere. Alla rivoluzione digitale deve corrispondere una rivoluzione del pensiero e dell’azione, altrimenti siamo al punto di prima. Immagino che il mercato della comunicazione finirà col bipolarizzarsi in modo netto: da una parte i 'pubblicitari' classici, condannati a perpetuare le farse coi testimonials nell’illusione di spacciare felicità a un “consumatore” sempre più povero e depresso; dall’altra una pattuglia - sempre più folta - di progettisti d’idee, interessati non tanto al “mordi e fuggi” della réclame quanto all’ideazione di mondi collaterali che risultino utili al committente. Le idee più brillanti che vedo in giro non vengono dal settore convenzionale dell’advertising ma da altre sorgenti. Prova a entrare, per esempio, nel sito http://www.thewildernessdowntown.com/ - e guarda quanta intelligenza vi è stata profusa per promuovere un disco degli Arcade Fire. Come definiresti un simile esercizio? Pubblicità? Web design? Abbiamo bisogno di parole nuove.

8. Come valuti il dibattito in corso all’interno dell’ADCI? Il Club può ancora avere una funzione importante? Quali obiettivi dovrebbe raggiungere?

Non so se un’associazione abbia il potere di migliorare i propri iscritti, ma so per certo che gli iscritti possono migliorare l’associazione: e se l’associazione è forte, sana, animata da energia collettiva ed esposta alla realtà circostante, può rivelarsi assai utile alla circolazione delle idee e alla rinascita di un settore che, come abbiamo detto, ha davvero bisogno di una scossa. Il Club ha di fronte a sé una grande sfida: quella di ridare lustro e credibilità alla parte più nobile della comunicazione italiana.

9. Quali caratteristiche dovrebbe avere il prossimo presidente? Hai in mente qualche nome? Come valuti la candidatura di Massimo Guastini?

In Massimo Guastini ripongo la massima stima e fiducia, perché ha mostrato di avere una visione non asfittica e molto, molto coraggio. In più mi sembra dotato della saggezza necessaria a dirimere eventuali controversie e instaurare un dialogo costruttivo con gli associati di oggi e di domani. Ho imparato a conoscere Massimo negli ultimi tempi; un’amicizia più virtuale che diretta, materializzatasi attraverso blog, social network e scambi di mail. Poi ci siamo finalmente incontrati e abbiamo chiacchierato appassionatamente per quattro ore di fila. Non mi capita spesso di imbattermi in persone che riescano a farmi parlare fino alla disidratazione della lingua. Bravo, combattivo e leale: io lo vedo così. Come altro dovrebbe essere il leader di un organismo come l’Adci, in questo momento difficile?

10. Quindi, secondo te non ha importanza che il presidente lavori nelle agenzie più grandi, quelle per intenderci, che producono se non la creatività migliore almeno quella più nota (non so se sei al corrente della polemica in corso all’interno dell’ADCI)?

Certe polemiche lasciano il tempo che trovano. Lo spazio va lasciato a chi si darebbe da fare per ottenere risultati, indipendentemente dalla dimensione della compagnia in cui opera. Guastini è, oltretutto, un eccellente copywriter; tendo a fidarmi di chi scrive bene.

11. Non è curioso che non ci siano altri candidati, e che nessuno dei creativi al momento più ‘in voga’ intendano candidarsi? Oltre alle dichiarazioni rilasciate dai singoli (vedi Taddeucci o Gitto) come spieghi questo fatto?

Non è una novità. Si è sempre fatta una certa fatica a convincere qualcuno a candidarsi. La presidenza dell’Adci non è un’onorificenza tout court: è lavoro massacrante, se fatto bene. Ricordo ancora quando costringemmo Pino Pilla ad assumere l’incarico. Incarico che nessuno voleva, a partire da lui. Lo sollevammo di peso da una sedia nascosta nelle retrovie e lo portammo in braccio fino al podio dell’assemblea, dicendogli: "Poche balle. Adesso tocca a te". Volente o nolente, dovette adeguarsi.

10. Sulla base della tua esperienza di presidente, nell’87 e nel ’94, quali suggerimenti ti sentiresti di dare al nuovo presidente? Cosa ti auguri per il futuro del Club?

L’87 e il ’94 sono preistoria. Preistoria nobilissima, s’intende, alla quale sono visceralmente affezionato. Ma non ho detto più volte che bisogna ripartire da zero? Le condizioni sono mutate. Sì, ora come allora (ma adesso di più) occorre rimboccarsi le maniche e lavorare come dannati; ma questo il prossimo presidente, chiunque sia, lo sa benissimo: non c’è bisogno che glielo dica io. Cosa mi auguro per il futuro del Club? Che faccia scintille e diventi il punto di riferimento indiscusso della creative community. Non solo quella dei pubblicitari, possibilmente. Lo so che è un’utopia. Ma senza qualche utopia si rimane seduti sul cesso tutta la vita.

Nessun commento: