mercoledì 22 giugno 2011

Space Available In Cannes/3.Di cosa parliamo quando parliamo d’Italia.





Che per noi questo fosse un anno difficle, lo si era previsto facilmente. Venivamo da un’abbuffata di Leoni di Auditorium Heineken, l’anno scorso. E subito dopo si era materializzato uno dei periodi più duri, nella politica e nell’economia. Figuriamoci nel nostro lavoro, che di solito vive di sponda.

Eppure ieri, quando ho festeggiato pubblicamente per l’annuncio del bronzo nell’affissione dell’agenzia Auge (il mega poster col buco diAlice in Wonderland nel centro commerciale romano lo vedete sotto al titolo), i soliti furbetti hanno pensato che la mia fosse felicità partigiana. Federica Ariagno e Giorgio Natale, oltre che due buoni amici, sono imprenditori indipendenti ed orgogliosi di esserlo, come me. Purtroppo nessuno ha capito che non festeggiavo una rivincita sui grandi network, ma un piccolo miracolo, un premio di qualità ad un paese in cui nulla succede se non per iniziativa dei singoli.

Poca programmazione, poco senso ed orgoglio di comunità, poca condivisione della nostra cultura col resto del mondo. Avevo scritto l’anno scorso che, dopo i tanti Leoni di Heineken dovevamo recuperare l’orgoglio di lavorare in questo strano paese, di cui tutti gli stranieri parlano bene. Il loro Karma, fino ad Auditorium, era: “Come mai un popolo che ha una cucina ed una storia così ricca e che produce moda e design di alto livello, non riesce a sfondare nella comunicazione commerciale…?” Ma quest’anno, in quesi tutti i seminar creativi che ho seguito, veniva citato, tra i tanti casi di successo, proprio Auditorium. Addirittura in un workshop intitolato “Regole per idee che rompono le regole”, oltre allo scherzo per la partita di Champions della birra era stato portato ad esempio anche il caso dei Baci Perugina e della loro fiction diffusa via Facebook due anni fa. Eppure, in questi primi tre giorni, niente premi italiani, pochissime short list tricolori. Insomma, siamo tornati indietro nella cosiderazione delle giurie. Sappiamo che è stato un anno difficile, ma non abbiamo fatto niente, come paese, per evitarlo. L’unica cosa buona, eleggere un presidente ADCI fuori dal coro. Il resto, tolto il bronzo di Federica e Guorgio, è silenzio.

Per di più, quello che fa sorridere è che al Palais tutto l’accesso all’area esposizione delle short list (Press, Poster, Cyber e Young Competition) è dominato da un enorma marchio Fiat. Bene, direte voi, ecco il Bel Paese protagonista al Festival della Creatività. Errore.

La Fabbrica Italiana Automobili Torino, nella sua versione globale e marchionniana, è il title sponsor de O Estado de San Paolo, che qui si presenta come la terra delle idee e del futuro. Se poi volete continuare a sorridere, 30 metri più avanti c’è lo stand dell’associazione delle agenzie di design brasiliane. Oltre una cinquantina di associate che con orgoglio hanno tappezzato ogni centimetro quadrato dei muri qui attorno con i loro poster. Promettono, in buon inglese ed ottima art direction: “Nei prossimi 5 anni comprerai design brasiliano.”

Che c’è da ridere? Spesso, in quei poster sono rappresentati prodotti italiani, per esempio, un’auto della Fiat. Segno che sanno che disegnaranno loro il nostro futuro. E probabilmente gestiranno le nostre campagne, visto che un caso che viene mostrato ovunque è quello della Fiat Mio, cocreation brasiliana via web per prodotti del futuro a marchio Fiat. Se vi serve documentazione, è tutto nel mio iPhone.

Insomma, non siamo male come singoli creativi. Sappiamo ancora difenderci, sappiamo vincere premi, magari con campagne su film americani tratti da romanzi inglesi. Ma il vero male della nostra comunità è che non sappiamo condividere la presenza e valorizzarci tutti assieme. Come i brasiliani hanno fatto meravigliosamente come gruppo di creativi fino ad ieri, e adesso riescono a fare in modo ancora più sistematico con il supporto del denaro del governo centrale. Loro hanno chiaro di cosa parlano, quando parlano di Brasile. Noi, di quello che siamo, forse non riusciamo a parlarne neanche nel nostro circolo ristretto. E al governo una industry che fa lo stesso Pil della moda, alla fine interessa poco.

Questo è un peccato, uno spreco di talento, un’handicap insostenibile.
A cui rispondono, soli soletti quelli come Federica e Giorgio: figli delle multinazionali, capaci di ben operare indipendentemente dai malvezzi del loro paese. E di Giorgi e Federiche ce ne sono tanti, in questo momento. Teniamoci stretti, ragazzi. Se qualcuno salverà la creatività di questo paese, saremo proprio noi indipendenti.

(pasquale.diaferia@gmail.com)

2 commenti:

Jajo84 ha detto...

Non so come sia altrove, non ho ancora avuto la possibilità di confrontarmi con mercati esteri, in pubblicità. Ma quello che vedo in Italia è una cosa sola: invidia. Quella brutta, cullata da anni di rancore, magari anche comprensibile vista la frustrazione che genera il nostro sistema lavoro. Un'invidia acida e corrosiva che non può portare alla sana e sacrosanta concorrenza, ma solo alla desertificazione.
MA di una cosa sono assolutamente certo: il nostro è un paese che non ha da spartire nulla con nessuno in termini di CREATIVITA'. Qui c'è il massimo, non ancora allocato. E son sicuro che ritroveremo la via. E quando succederà, dovranno tutti mettersi gli occhiali da sole.

Roberto ha detto...

@Jajo84: parole sante, la creatività italiana era l'unica cosa che gli italiani hanno avuto; e questo da prima ancora che ci fosse l'Italia!