lunedì 14 novembre 2011
E se, alla fine, la pubblicità fosse fondamentale anche nel 2.0?
Squillino le trombe, andiamo ad Engaging the Reader. Visto che tutti ne parlano e dicono che è imperdibile, affronto lo Scalone d'Onore della Cattolica di Milano e trovo 200 persone registrate, molte in piedi. Si parla di editoria digitale, sul tema sono molto caldo. Accedo il mio Mac, e scopro che il wireless dell'Università non è aperto, protetto dalla solita password legata alla legge Pisanu (come da immagine in alto).
Mica male, per essere un convegno sull'editoria digitale e contemporaneamente il lancio della seconda edizione del Master sull'argomento dell'Ateneo di Largo Gemelli. Se questo è ancora oggi lo stato dell'arte delle connessioni accademiche, non basterà SuperMarioMonti per portarci in Europa.
Prima relazione molto seriosa di Jean-Francois Gilmont, professore francese, sull'ergonomia della conoscenza, seguita da panel con la direttrice di Dove, Alessandra Ferraris, e due altri giornalisti, coordinati dal primo direttore di Repubblica.it, Tedeschini Lalli. Ovviamente i giornalisti portano la discussione sul loro terreno parlando, cito testualmente il titolo, dell'organizzazione dei contenuti tra tipografia e nuovi media.
(Nuovi Media? Alla fine del 2011 c'è ancora qualcuno che li definisce nuovi media?)
Michele Mezza, ex vicedirettore di RaiNews24, comincia a diffondere il seme del dubbio che le notizie non meriteranno più un pagamento, nel prossimo futuro: "Se internet non è un media, ma relazione sociale tra uguali, la distribuzione delle notizie diventerà pratica sociale di massa."
Mentre prendo nota della frase successiva ("il più recente elemento di disintermediazione on line è la velocità: la Sesta W del giornalismo è il While, le notizie diffuse mentre avvengono") tweetto la battuta precedente e qualcuno mi scrive privatamente: "Di al tipo che, se non se n'era ancora accorto, la gratuità delle notizie non riguarda il futuro, è già successa."
Si passa ad un oratore più giovane, che non ha direzioni di testate alle spalle e si dichiara nativo digitale, Nicola Bruno. Chiaro e diretto, porta la questione sui contenuti, dove si giocheranno tutte le partite: "L'App di Wired USA, che l'anno scorso di questi tempi sembrava la cosa più moderna e seduttiva, con filmati, effetti speciali, ogni genere di trick per attirare l'attenzione, ha fatto 100mila download per il primo numero, poi è crollata miseramente e adesso vivacchia, sul ricco mercato americano, intorno alle 20mila copie scaricate al mese."
(Mi sembra la parabola dei primi siti web, in cui se non usavi flash eri fuori dal coro. Oggi finalmente Adobe ha fatto il funerale a Flash, ma nessuno dei fighetti che diceva che eri out se non sapevi programmare in quel linguaggio ha chiesto scusa)
Bruno continua citando invece un esempio di vera tendenza: "L'App del New Yorker ha le stesse caratteristiche della versione cartacea. E' basata sulla parole, sulle narrazioni, sull'intelligenza e la capacità degli autori. Oggi viaggia ad una media di 400mila download ogni mese, poco meno della metà dei suoi lettori cartacei, ed è lo standard con cui misurarsi in futuro."
(Però, sei ad un convegno sull'editoria 2.0, e quello più giovane di tutti ti ricorda che i contenuti testuali sono fondamentali... Commento di un autore televisivo in risposta al mio tweet sull'argomento: "Bella forza, la parola avrà sempre l'ultima parola!")
Il culmine dello straniamento viene raggiunto con l'intervento della Ferraris. La direttrice di Dove racconta della complessità del sistema multimediale costruito da RCS per una realtà che parte dalla carta del mensile, si muove sul portale web per finire alla tv satellitare monotematica. Quindi commenta una ricerca appena effettuata, in cui si è misurato il gradimento della nuova App di Dove: "I consumatori hanno trovato troppo povera la versione iPad che avevamo presentato, nonostante la ricchezza di contenuti e di soluzioni multimediali. In particolare hanno trovato assolutamente triste il fatto che mancasse la pubblicità."
(colpo di scena: mi vuoi dire che alla fine tutto il nostro lavoro non fa che rendere più interessanti e complete le riviste, quelle di carta come la nuova generazione digitale? ecco pronto il titolo di questo post.)
A quel punto non ho resistito, ho chiuso il Mac, ho staccato la chiavetta con cui avevo navigato fino a quel momento e me ne sono andato, nonostante fossero previsti altri interventi importanti. Ma onestamente mi sentivo confortato nelle mie convinzioni: quello che continuo a dire da anni ("i creativi creano i contenuti, quindi sono la componente fondamentale di questa industria") resta l'unico dato di fatto. Che ci sia l'analogico o il digitale. Che i palinsesti li facciano a Cologno come un tempo o li stabiliscano i consumatori che si scelgono il media su cui ricevere le notizie e l'intrattenimento. Che i servizi siano gratuiti o a pagamento. Alla fine, chi fa le cose sono sempre quelli che hanno le idee. Gli altri, gliaccountglieditoriiproduttorieccetereccetera, le distribuiscono e, maledizione, ci guadagnano spesso senza muovere un dito.
Forse è venuto il momento, perfino in questo paese arretrato, di riprendersi in mano i basics del nostro mestiere. Firmiamo e depositiamo le nostre idee. Facciamocele pagare direttamente dai clienti, dai consumatori, dai lettori. Con il digitale tagliamo fuori dal processo tutte quelle componenti che si limitano a intermediare il nostro talento. C'è chi lo ha già fatto e vive felice.
(A proposito, uscendo ho chiesto come mai il wireless della Cattolica non fosse libero e disponibile a tutti. Risposta volante, mentre mi chiudevo la porta alle spalle: "ah, ma per i giornalisti c'era la password, bastava chiederla." Appunto, quando mi hanno consegnato il badge all'ingresso nessuno me l'ha detto. Considerando che in sala c'erano solo giornalisti e tutti usavano la chiavetta, l'ennesima dimostrazione che non conta il media, ma solo il messaggio.)
Pasquale Diaferia
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