Questi ultimi mesi, così carichi di apprensioni per la perdurante situazione negativa dell’economia mondiale, mi hanno spinto a valutare con occhi diversi le esigenze che imprenditori e manager ogni giorno discutono con me e con i colleghi dell’agenzia che rappresento. Fino a pochi anni fa, in Italia, la percezione più diffusa in merito alle opportunità offerte dal Web era ancora legata a un approccio “broadcast”, nel quale l’azienda diffondeva al mondo il suo messaggio esattamente come avrebbe fatto attraverso i mass media tradizionali. Certamente, la possibilità di essere contattati attraverso la compilazione di un form o l’invio di una mail costituiva un valore aggiunto ma pochi erano davvero in grado di apprezzarlo e di gestirlo a fondo.
Il Web 2.0, fenomeno ampiamente diffuso e consolidato in tutto il mondo già da alcuni anni, veniva visto dalla maggior parte delle aziende come qualcosa di caotico e poco professionale, fatto di ragazzini che passano il tempo a caricare on-line video di bravate e papere varie oppure di blogger che combattono la loro solitudine passando il tempo a scrivere.
Poi venne la crisi, il calo dei consumi, gli investimenti pubblicitari ridotti all’osso. Che fare? Possibile che in Italia debba arrivare una fase recessiva per scoprire ciò che è noto da almeno un decennio (il fatto che la Rete sia “il” medium per eccellenza)? Il superamento dei dieci milioni di utenti facebook, le migliaia di blog “professionali” (e le centinaia di migliaia di amatoriali), i milioni di ore che ogni mese i navigatori trascorrono interagendo hanno “suggerito” che, tutto sommato, in un momento in cui non ci sono grandi budget da investire, può valer la pena di provare a cambiare radicalmente il modo con cui un’azienda si presenta sul mercato e, soprattutto, si relaziona con esso.
Forse, ciò sta accadendo perché, in fondo, c’è la consapevolezza che stiamo vivendo un mutamento di portata storica, non il solito ciclo economico al quale eravamo abituati. E’ il cambiamento di un modello culturale insostenibile nel lungo periodo. In un mondo con risorse limitate non può esistere un processo di crescita infinita. Banale? Forse, però, intanto, si continua a misurare il “benessere” di un paese con la crescita del suo PIL. Poco importa se il PIL cresce perché è aumentata la vendita di armi o perché un disastro naturale ha stimolato la costruzione di abitazioni... cresce, questo basta.
Dalla consapevolezza della necessità di un cambiamento all’applicazione di un modello d’azione il passo non è breve. Molti imprenditori, soprattutto quelli che con le loro piccole e medie imprese sostengono il tessuto economico italiano, sanno essere attenti ai segnali della società e, grazie alla flessibilità delle loro imprese, riescono ad adeguare i loro prodotti e servizi in tempi record. Il Web, con le sue conversazioni e gli infiniti stimoli di cui è portatore, è così diventato oggetto di attenzione straordinaria. Non quell’attenzione “finanziaria” che alla fine degli anni ’90 aveva fatto illudere più di qualche investitore sulla possibilità di arricchirsi in pochi mesi costituendo una società “dotcom”, si tratta di qualcosa di molto più profondo e radicale: la Rete come veicolo e motore al tempo stesso del cambiamento epocale che stiamo vivendo.
Questa presa di coscienza rappresenta un passo avanti importante per consentire alla “saggezza delle folle” di emergere però, da un punto di vista aziendale, non è ancora così chiaro un elemento fondamentale: affrontare la Rete come azienda significa avviare un processo di trasformazione profondo, fatto di trasparenza, di capacità di ascolto, di attenzione verso i propri interlocutori, siano essi clienti, fornitori o dipendenti.
Tutto ciò non si realizza incaricando un’agenzia e delegando all’esterno la gestione del processo, occorre un coinvolgimento profondo di tutti gli attori coinvolti che, per primi, devono aver superato quella barriera fra atomi e bit che ancora esiste nella mente della maggior parte delle persone. La capacità di integrare nei nostri processi cognitivi e relazionali quotidiani l’“information cloud” che costantemente ci avvolge costituisce il vero “salto di qualità” per avviare un processo di cambiamento profondo.
Non si tratta di diventare dipendenti dalla tecnologia (lo siamo già, comunque), bisogna sempre pensare che la Rete è fatta prima di tutto di persone, l’infrastruttura tecnologica non servirebbe a nulla se non ci fosse chi la utilizza.
Qui si innestano ulteriori temi assai complessi, come quello del digital divide culturale, che non possono essere affrontati in questo post ma che sarebbe interessante discutere, anche attraverso i commenti che è possibile inserire su “Lato B”.
In estrema sintesi, giusto per cercare di dare un’apparente conclusione a queste riflessioni, ciò che vedo con sempre maggiore evidenza discutendo con imprenditori e manager è la “voglia” di percorrere strade diverse accompagnata da un senso di spaesamento, tipico di chi si avvicina a un mondo nuovo. La sensazione che ne ricavo è comunque positiva perché ho fiducia nel concetto di “collaborazione” e nulla è più collaborativo di una Rete aperta che avvolge il mondo intero 24 ore su 24.
E voi, cosa ne pensate?
1 commento:
Posso commentare che quanto detto per le imprese vale anche per il mondo dell'umanitario. Se i nostri "clienti", i beneficiari, le popolazioni in difficoltà, difficilmente hanno accesso a questi mezzi, l'interazione tra azienda (le sedi), le filiali (i nostri progetti sul campo), i fornitori (materiale medico, diagnostico e logistico), la conoscenza (tutta la leteratura medico-scientifica), e così via hanno una dimensione nuova con ciò che il web attuale permette.
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