venerdì 30 ottobre 2009

Riconoscere il merito significa conoscere le regole (anche in questo mestiere).


Sono stato a Roma un paio di giorni per lavoro. Come sempre, ne approfitto per leggere anche i giornali locali.

Sul Messaggero, nella pagina che presenta le linee guida del decreto Gelmini sull’Università, in alto c’è un box. Spiega in una quindicina di righe cos’è il merito, visto che è alla base degli interventi della Ministra.

Lo leggevo in un bar di Trastevere. Dovevo correre ad un appuntamento da un cliente. Ma non riuscivo ad evitare di pensare: vivo in un paese dove un importante giornale, strumento quotidiano di aggiornamento della classe dirigente, ha la necessità di definire con parole semplici cosa vuol dire Meritocrazia.

E’ due volte più grave spiegarlo in un momento storico in cui la parola viene usata a sproposito sui giornali e nei telegiornali. Ne parla la “maitresse à penser” Simona Ventura, per giustificare la presenza in tv del giovane Facchinetti (che è un classico esempio di nepotismo, non di merito). Ci fa un decreto la Ministra di Brescia che ha dato l’esame di stato da avvocato a Reggio Calabria (dove di solito vanno quelli meno bravi, che sanno di non farcela in sede). Ne parla il ct della nazionale per giustificare il fatto che il talento più puro del calcio italiano non andrà ai mondiali (cassano non se lo merita, probabilmente perchè ha il demerito di non aver mai firmato un contratto con suo figlio o con moggi). Andate avanti voi.

La sensazione è che come sempre si parla molto, ma le azioni non corrrispondano alle dichiarazini. Sarà che, per dare spazio al merito, bisogna abituarsi alla dura abitudine di rispettare le leggi, le regole, gli statuti. Il merito permette di garantire la qualità e le regole che lo misurano devono essere oggettive. E sopratutto applicate. La legge garantisce che il merito (ed il demerito) vengano premiati e puniti. Usi e costumi, oltre ai regolamenti, permettono di riconoscere il talento e i corretti comportamenti.

Quindi non c’è bisogno di un box per spiegare una parola di cui molti si stanno riempiendo la bocca. Basterebbe rispettare le regole esistenti. Non riscriverle o “interpretarle” ogni giorno.

Per esempio, applichiamolo alla nostra vita professionale.

Non serve fare le gare pubbliche (ma anche quelle private) per riconoscere le migliori agenzie. Se proprio non se ne può fare a meno, basterebbe che i responsabili delle pubbliche amministrazioni evitino l’irregolarità di bandi scritti per promuovere solo alcune strutture. Se non proprio quella lì.

Non serve dire di investire sui giovani e sul merito, mentre gli stessi direttori creativi riempiono i reparti di stagisti, usati a gratis e mai confermati.


Non serve gestire le associazioni come se fossero di proprietà di qualcuno. E’ necessario che i presidenti, come i singoli soci, non pensino che siano loro aziende. E non usino gli statuti come se fossero carta straccia (anche se modificare le leggi a proprio uso e consumo sembra uno stile che va molto di moda, anche dentro le altre istituzioni, quelle vere).

Concludendo, sarà anche accettabile che nel pubblico (in rai, in nazionale, come alle poste) l’unico merito riconosciuto sia l’appartenenza a questa o a quella parrocchia.

Ma noi facciamo un lavoro di mercato. Dovrebbe essere quello il luogo in cui stabilire chi è il migliore.

Anche se sembrano prevalere la furbizia, l’opportunismo, la capacità di ignorare bellamente leggi e regole, conviene tenere duro: alla fine anche in un mercato complicato come il nostro i risultati arrivano. Sarà poco, ma chi sta scrivendo può dimostrarlo con il suo lavoro di tutti i giorni.

Certo, potrete sempre dire in giro che non lo merito (me lo consentite un sorriso ironico, visto che in molti mi vorrebbero simpaticamente morto?).

Ma per affermarlo dovrete prima ammettere che, anche in questo strano lavoro, riconoscere il merito significa conoscere le regole. Mi accontenterei di questo, da parte dei mille “meritologi” dell’ultima ora.

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