venerdì 14 gennaio 2011

HOW DO YOU DO? L’intervento di Andrea Concato


Che aria tira, quali sono le dinamiche che animano il mercato, come cambia il panorama delle agenzie, in quali condizioni versa la creatività chiamata a fare i conti con una sostanziale mancanza di leader carismatici che sappiano difenderne il valore? E le persone, non è arrivato forse il momento di dare loro contenuti un tantino più intelligenti e stimolanti di quanto media e pubblicità abbiano saputo propinare fino a oggi? Infine, quale può essere in un contesto come quello in cui viviamo il ruolo della stampa professionale? A queste domande risponde Andrea Concato, creativo di lungo corso, titolare oggi della sua omonima agenzia di Milano, consulente per alcune aziende multinazionali, e collaboratore dell’agenzia Longari & Loman per la quale contribuisce allo sviluppo. Per quanto riguarda l’ultimo punto del suo lungo e appassionato articolo, quello appunto dedicato alla stampa di settore, posso ribadire quanto già pubblicato nel mio editoriale di fine anno, (vedi la notizia correlata) e confermare che affronteremo, con maggiore attenzione rispetto al passato, le problematiche più rilevanti del nostro settore. In questo senso, grazie all’intervento di Concato, che ci piacerebbe avere quale ospite costante sul nostro sito, e di altri professionisti che seguiranno, ADVexpress intende alimentare un confronto che ci piacerebbe vedere coinvolti anche voi lettori e operatori della comunicazione. È possibile intervenire partecipando al Lato B, il blog di Advexpress ormai attivo da qualche anno (http://advexpress.blogspot.com), scrivendo alla redazione (redazione@adcgroup.it), o direttamente al direttore (salvatore.sagone@adcgroup.it).
La parola ad Andrea Concato.


Buon anno. Secondo me sto’ duemilaundici non sarà mica male.
Ho osservato più di una volta che nei lunghi momenti di crisi si accumula una voglia inespressa di spendere e di godersela. Una specie di elastico che si tira. Normale, giusto e comprensibile.
Si accumula anche denaro. A parte quelli che, con tutto il nostro rispetto, hanno perso il lavoro per la crisi di alcune aziende, gli altri hanno continuato a prendere lo stipendio; gli stipendi sono cresciuti poco più dell’inflazione e Banca d’Italia ci informa che il risparmio si è mantenuto a buoni livelli (10% dell’income famiglie nel 2009, 8% nel 2010). Professionisti, commercianti e imprenditori un po’ si lamentano, un po’ si consolano, molti hanno incassato meno, ma se la cavano. Se c’è del risparmio significa che le famiglie italiane hanno speso meno di quello che hanno incassato.
La verità è che gli Italiani spendono troppo in telefonia e mutui (questi ultimi in crescita inarrestabile, ancora +9,3% in Ottobre 2010), poi fanno fatica sul resto (Istat ci dice che la somma di servizi di telefonia fissa + mobile + internet + acquisto cellulari fa 120 euro a testa al mese. Se una famiglia di 4 persone ha anche un mutuo si arriva in un baleno a gravare il bilancio famigliare di mille euro al mese. Mica male).
Però c’è un accumulo di denaro e di voglia. Sperando che non diventino preda di una prossima bolla finanziaria, possiamo vedere che nelle aziende italiane serpeggiano progetti e dinamiche.

E qui arriviamo a noi.
Nei media, stiamo vedendo che utenti e investimenti ora crescono dappertutto tranne che sulla carta.
(a proposito, sono curioso di vedere come Brasile, Canada e Svezia riconvertiranno parte della loro economia in vista del calo della domanda di carta nel futuro).
Cresce molto il digitale, anche se soprattutto da noi è ancora una frazione troppo piccola delle spese di comunicazione. Cresce tutto il business del digitale, perché ancora così tante aziende sono così indietro nel suo utilizzo, soprattutto per creare un legame oltre che una vetrina o una ”experience”.
Cresce anche il consumo di tv, sia generalista che tematica, con buona pace di chi la dava per spacciata. Il tempo che dedichiamo a uno schermo informatico, fisso, portatile o mobile, si è affiancato a quello che diamo alla tv. E cresce la domanda di spazio in tv. Qualcuno dice che la metà della prossima crescita di investimenti adv la prenderà la tv. E che questa sottostimata richiesta sta rendendo la ripresa più rapida di quanto si aspettasse. Il 6 dicembre Stuart Elliott ha scritto un interessante e documentato articolo sul NYT.com “Still counting on the power of television.”
Dunque, come si dice dagli anni sessanta, c’è trippa per i gatti.
E i gatti come si comportano?

LE AGENZIE.
Negli ultimi anni le agenzie, specialmente quelle grandi che ancora gestiscono una corposa quota del business, hanno subito più di un mutamento ambientale. Provo a elencarli.

Come in ogni altro settore, la moltiplicazione dell’offerta e la necessità di comprimere i costi hanno reso più arrogante la domanda.
Pensiamo che succeda solo a noi, ma non è vero. Negli ultimi anni ogni fornitore è stato compresso. Chiunque venda qualcosa a un’azienda lo sa bene. Anche gli architetti sono messi in gara, non solo dadi & bulloni e fornitori di catene di montaggio o mense. Persino le più prestigiose law-firm. E’ successo. E sono ancora sotto choc.
Pensavamo che “qualitativo” fosse sufficiente? Non lo è più. “Qualitativo + Competitivo” it’s the name of the game. Per tutti.

Molti clienti internazionali delle agenzie internazionali fanno le campagne internazionali fuori Italia. E dalle agenzie stanno sparendo i condottieri creativi. Costosi, ingombranti, traboccanti ego. Ma sapevano trascinare, coinvolgere, spingere, esaltare gruppi di lavoro, clienti, imprenditori, amministratori delegati. Sapevano generare comunicazione rilevante, che faceva succedere qualcosa, di cui le persone si accorgevano e parlavano. Non sempre creativamente eccellenti, ma molto spesso rilevanti. Un’agenzia soffre se manca un condottiero capace di generare una straordinaria propensione all’eccellenza.
Nel nostro mestiere l’eccellenza produce un impatto sul mondo, e genera denaro.
Adoro dire questa frase: “Noi possiamo cambiare il corso delle cose pensandoci su.”
Non conosco imprenditore che non la chieda.
Il problema è riconoscerla. E conosco poche persone fra i clienti e nelle agenzie capaci di riconoscere l’eccellenza che funziona (per averne la prova, è sufficiente accendere la tv).
Per ripetermi cito un film ben scritto di Rob Reiner, dove Michael Douglas fa il Presidente degli Stati Uniti Shepherd, e Michael J. Fox fa il suo assistente Lewis.
Lewis: “They want leadership. They're so thirsty for it they'll crawl through the desert toward a mirage, and when they discover there's no water, they'll drink the sand.”
Shepherd: “People don't drink the sand because they're thirsty. They drink the sand because they don't know the difference.”
Per vendere l’eccellenza è necessaria una reputazione. Per ottenere una reputazione sono necessarie delle doti: competenza vera, talento, virilità, etica, serietà.
Se ci guardiamo intorno e troviamo abbondanza di queste doti, siamo a cavallo. Se non le troviamo siamo in un altro posto.

E’ evidente un travaso di progetti anche rilevanti dalle grandi agenzie a strutture medie e piccole. E da tempo fioriscono le aperture di queste agili e meno costose strutture, spesso abitate da ottimi talenti che si sono formati su conti e in agenzie importanti.
Questo pone due questioni, una per le medie e piccole, e una per le grandi.
Il rischio per la moltitudine di agenzie del primo tipo è un possibile peggioramento ulteriore del rapporto domanda/offerta. La frammentazione dell’offerta in strutture singolarmente meno pesanti non depone a favore. Ancor più nel rapporto con i media, la cui struttura di offerta è in pochissime mani.
Ma c’è un luogo dove la numerosità delle strutture medie e piccole può ricompattarsi e riguadagnare lo spessore politico che non possiede dimensionalmente: nelle associazioni di settore.
Soprattutto AssoComunicazione e Art Directors Club.
Nel nuovo panorama che si sta dispiegando le associazioni sono l’unico ambiente in cui un crescente numero di strutture dell’offerta di comunicazione può giocare un ruolo rilevante nel Paese. A patto che siano gestite con questa missione.
Non sono abbastanza informato sugli ultimi sviluppi di Assocomunicazione, ma posso dire che gli ultimi 3 anni di Art Directors Club sono stati completamente buttati.
Le colpe? Senza tirare in ballo persone che soffrono del male descritto da Shepherd, soprattutto l’assoluta mancanza di senso del bene comune, un Grande Male Italiano. Si fa solo quello che, nel breve, conviene a noi. Anche se poi tutto va in vacca. E’ come il parcheggio in doppia fila. A me fa comodo, ora. Se poi cinquanta auto dietro di me devono rallentare, e allora?
Ad AssoComunicazione una o due cose vorrei chiedere. Tutti siamo concordi nell’augurarci il nostro ritorno alla statura che avevamo nel mercato, parlo di rilevanza, di ruolo, di reputazione. Non sarebbe il caso, in questa direzione, di iniziare a tirare delle righe? Di qua le strutture in grado di rispondere con organizzazioni e talenti adeguati a tutti i bisogni nelle varie discipline della comunicazione, con un unico disegno capace di lanciare, sviluppare, consolidare una marca e di là le strutture specialistiche capaci di fare uno o alcuni dei mestieri? Per essere percepiti come seri, non dovremmo cominciare ad esserlo? Non è che ci fa bene continuare a permettere a chi fa eventi (con tutto il rispetto) di scrivere in homepage “Brand building communication projects”.
E vogliamo iniziare a spiegare agli scaltrissimi uomini di marketing che lo praticano cosa stanno comprando per mille euro sul social network creativo? E quanto vale? E che odore ha?
Per le grandi agenzie invece, secondo me si presenta una bella sfida. Quella di replicare il modello di business delle medie e piccole.
Se il costo dei talenti è il medesimo, se il costo dei metri quadri è il medesimo, come possono le grandi agenzie ristrutturare le spese generali per ottenere un’incidenza pari a quelle delle altre? Una grande agenzia non è forse il risultato dell’affiancamento di team come nelle altre, solo più numerosi? Quali sono i componenti delle procedure che rallentano e appesantiscono?
Io posso solo notare che poco prima di Natale, mi è stato riferito che davanti all’ingresso di una grande agenzia internazionale un gruppo di persone stava andando a una riunione da un grande cliente. Erano in sette. Ora, a meno che non si trattasse di un lancio pan-europeo, cosa che dubito, cosa ci faceva quell’esercito? E in che tipo di fattura può trovare conforto una missione così? Con quale causale?
Prima o poi si dovrà chiedere ai clienti di accorciare la catena delle presentazioni in azienda, portando i progetti nel più breve tragitto possibile di fronte al decision maker. Chi non lo è non può per sua natura mettere la testa su una campagna che ha assenza di precedenti e coraggio. Peccato che siano due componenti fondamentali di una buona campagna.
Il che ci porta diritti diritti a

I CREATIVI
Io sono uno di questi, soffro e ho sofferto di tutto il bene e il male della categoria, nella mia vita professionale che conta qualche annetto (ciumbia, quest’anno sono 38).
Molti miei colleghi sanno riconoscere una campagna di alta qualità creativa.
Ma non so quanti di noi sanno riconoscere una campagna che fa il lavoro che è chiamata a fare.
“We are creatives, and we definitively are in business”.
Chi non pratica questo, chi crede di fare della creatività tout court forse dovrebbe considerare altri mondi professionali, più accoglienti.
Se poi presentiamo e vendiamo direttamente al decision maker, è molto meglio che non presentiamo alcunché di velleitario, ma solo progetti molto brillanti, molto unici, molto efficaci.
Efficace vuol dire che funziona, non che piace al direttore creativo dell’agenzia all’altro lato della strada. Almeno non solo.
Credetemi, se un capace e indaffarato AD mette fra noi e lui tre middle manager del marketing è solo perché ha paura che gli facciamo perdere del tempo con le nostre illusioni creative. Questa paura va rimossa, e forse rimuoveremo anche le limature, gli ammorbidimenti, i test, gli animatic, le doppie versioni, le consulenze dei sociologi e degli psicologi (aaaarrgghh!!).
Non è mestiere per creativi chiusi nel loro mondo oligoriferito, proprietari di codici e culture aristocratiche, replicanti di modelli del circuito dei premi internazionali (spesso falsi) sospettosi e rancorosi verso chi non li capisce. Il modulo narrativo di un poster brasiliano falso non può essere adatto a un prodotto popolare italiano, anche se il fatto di essere riusciti a replicarne il livello ci può riempire d’orgoglio.
I creativi italiani hanno uno strabordante talento. Lo dimostrano ogni volta che vanno a lavorare e a confrontarsi in altri Paesi. Ma siamo tutti prigionieri di un inappagato bisogno di vedere riconosciuto il nostro valore e di un necessario training sull’abilità nel riconoscere cosa può far succedere qualcosa e cosa no. Imparando anche il perché.
Solo così possiamo sperare di far capire ai nostri committenti che noi siamo capaci di far lavorare ogni loro euro per sette, con una nostra idea.
E solo così potremo imparare davvero a parlare con

LE PERSONE
Qui io sono convinto da tempo che si sia caduti trappola di un antichissimo gigantesco equivoco.
Che esista la casalinga di Voghera.
Che esista cioè una manichea classificazione di persone in cluster dai tratti omogenei.
E’ il presupposto che guida i programmatori televisivi, i giornalisti, i pubblicitari, gli autori cinematografici a confezionare prodotti di imbecillità abissale e di perversa turpitudine cerebrale “per le persone a cui piace quello”, e prodotti senza speranza di pubblico “intelligenti per le elite”.
Solo risalendo a criteri così rigidi si può giustificare l’esistenza di certi film, di certi spot, di certi programmi tv, di certi giornali.
Secondo me il principio è sbagliato. Perché dentro ciascuno di noi si nasconde una parte nobile e una parte ventrale. Sono gli stimoli ambientali che ci influenzano ad usare una o l’altra parte.
Infatti conosco teste finissime che non perdono una puntata dell’Isola dei famosi. Conosco pensatori profondissimi che non disdegnano la lettura di Chi. Conosco fruttivendole di Cosenza che leggono Baricco. E ho visto, ve lo giuro, la casalinga di Voghera alla mostra di Caravaggio all’Arengario di Milano.
Volete le prove?
I numeri fatti da “Vieni via con me”. Sono numeri importanti. Che chiedevano un po’ di intelligenza alla tv.
La votazione degli utenti, nel 2009, al Premio della Televisione della Rai che ha incoronato come miglior programma “Che tempo che fa”.
Il nuovo Museo del Novecento di Milano che ha accolto 200.000 visitatori solo nel primo mese di apertura! Tutti sono usciti di casa e si sono messi in coda!
Ditelo per favore a quelli che pensano che solo Domenica 5 con Barbara d’Urso sia popolare.
Io mi sono permesso di scriverlo insieme a Lele Panzeri in uno spot per Tele+ di qualche tempo fa: “Vedere cose belle ci rende più belli. Ascoltare cose intelligenti ci rende più intelligenti”.
Quando si capirà che l’intelligenza è una caratteristica popolare, e non tanto l’imbecillità suo contraltare, allora potremo tutti quanti produrre una comunicazione più intelligente.
E forse contribuire a diventare un popolo più intelligente. (e poi più serio? e poi più etico? e poi?)
Perché la comunicazione intelligente è quella capace - miracolo! - di legare i marchi e le persone, magari anche per lungo tempo, perché i valori in ballo non saranno più solo “mi piace” e “mi fa ridere”, ma anche “rispetto”, “ammirazione”, “amore”. In fondo sono i sentimenti con cui ci facciamo una sola sera di sesso, oppure ci sposiamo.
Alzi la mano il cliente che non vorrebbe che i suoi clienti provassero a lungo tali sentimenti per la propria marca.
Si può fare.
(anche se non certo con le battute da bar degli anni ’60 né con le famiglie che improvvisano uno sventato musical quando la mamma presenta le polpette in tavola)

E vorrei concludere, giusto per impertinenza verso l’ospitalità con

LA STAMPA DI SETTORE
Intendiamoci, così come il cinema, la letteratura e la pubblicità, la stampa di settore non è tutta uguale e non si può generalizzare.
Ma a leggere la nostra stampa siamo tutti eroi che fanno cose meravigliose e badilate di denaro.
Sogno di leggere di più di fatti, fenomeni e persone non raccontate da loro stessi.
Ho letto l’editoriale di inizio anno di Sagone e sarei andato da lui a proporgli di sposarmi.
Si sente il bisogno di una penna che testimoni la realtà dei fenomeni e delle loro dinamiche.
Ho un mucchio di domande a cui vorrei che la nostra stampa rispondesse.
Perché quello se n’è andato, perché quelli così bravi non hanno abbastanza successo, perché quegli altri così palesemente incapaci sfornano una campagna invisibile dopo l’altra, perché con quella campagna si buttano tanti denari pubblici, perché quel famoso personaggio se non scrive sotto “questa è una campagna per xxx” nessuno la capisce eppure gli fanno fare un progetto dopo l’altro, perché quel cliente mette di nuovo in gara la marca dopo che la sua agenzia le ha dato tanto valore (troppe ne avrei)?
Indagando, chiedendo in giro, chiedendo ai protagonisti e ai ragazzi del bar (quante ne sanno i ragazzi del bar!), chiedendo sulla tolda di comando ma anche in sala macchine.
Io penso che la stampa di settore potrebbe avere un ruolo fondamentale in un duemilaundici migliore. Raccontando, misurando, confrontando, svelando sempre con in mente la meta e la strada: una comunicazione migliore, per un’economia migliore, in un Paese migliore.

Andrea Concato

1 commento:

LaCò ha detto...

Un post così va riletto più volte per apprezzarlo nella sua interezza.
Dopo mille panegirici sulla web 2.0 finalmente un'analisi attenta e profonda dello status quo.