venerdì 28 gennaio 2011
'Perchè il marchio Apple vale zilioni di dollari e il mio vale due patate?
Prosegue il dibattito inaugurato da ADVexpress tra i professionisti della comunicazione con un secondo intervento di Andrea Concato, che, dopo una prima profonda riflessione su mercato, agenzie, creatività e stampa di settore (vedi notizia correlata), ora si concentra sulle marche forti, quelle di valore, capaci di crearsi una reputazione attraverso una comunicazione rilevante. Non mancano i pensieri su manager e azionisti, futuro e tecnologia.
È possibile intervenire al dibattito partecipando al Lato B, il blog di ADVexpress ormai attivo da qualche anno, scrivendo alla redazione (redazione@adcgroup.it), o direttamente al direttore (salvatore.sagone@adcgroup.it).
Da venticinque anni (da quando mi hanno dato il permesso di entrare), incontrando i board di aziende di ogni tipo e dimensione, dalla multinazionale alla piccola azienda familiare, mi sento fare questa domanda: “Noi vorremmo diventare come la Apple. Perché non siamo come la Apple?” O come la Nike, o come la Coca-Cola. “Vorremmo che il nostro marchio fosse amato e ammirato come quelli.”
A volte mi è andata di culo e il riferimento è stato a marchi per cui ho lavorato a casi di un certo successo: Barilla, Fiat, Nissan, Tele+, Toshiba, Colgate Palmolive, Simmenthal, Scottex, Ariston, Peugeot e qualcun altro.
Ogni volta prendo la domanda sul serio e dico quello che ho imparato e che penso: perché dopo essersi assicurati di avere le altre tre P (e i capitoli di ciascuna P) inossidabili, hanno ricercato e stabilito la loro unica e distintiva ragione di essere, hanno disegnato le proprie caratteristiche e la propria personalità, ricercando una relazione con chi le può apprezzare, hanno capito che i rapporti fra i marchi e le persone implicano gli stessi sentimenti dei rapporti fra le persone, hanno fatto una promessa e proposto un patto con i loro clienti e con il mercato e l’hanno comunicato con semplicità e coerenza, tenendo la mano salda sul timone qualunque fosse la forza del mare. Hanno praticato serie politiche commerciali e hanno fatto i guardiani della continuità nelle varie aree o nei vari Paesi. Hanno dialogato con i loro clienti, li hanno ascoltati, hanno aperto canali, hanno promosso operazioni di comunicazione che testimoniano semplicemente la loro simpatia, la loro intelligenza, la loro etica, hanno tenuto conto degli argomenti che arrivano da chi compra i loro prodotti.
Così facendo sono diventate delle star, hanno generato ammirazione e amore, si sono create quel magico valore che si chiama reputazione. Oggi le aziende che si sono comportate così hanno in tutto il mondo un pubblico talmente fedele che alla comparsa di un nuovo prodotto, non lo comprano se ne hanno bisogno, non lo comprano se proprio NON ne hanno bisogno!"
C’è qualcuno che non vorrebbe avere dei clienti così?
Volete altre prove del valore di un brand? Quando è forte nemmeno l’insuccesso di un prodotto può rovinare l’azienda. Il caso New Coke non ha ucciso la Coca-Cola. Gli spaventosi modelli capitanati dall’Arna lanciati durante la gestione IRI non hanno cancellato l’Alfa Romeo, la terrificante cura De Tomaso non ha sotterrato la Moto Guzzi. Tre marchi forti per storia e tradizione di valori che hanno saputo o sapranno ridecollare appena riportato il prodotto nella franchise, nel perimetro dei
propri significati.
Datemi retta, l’idiozia, la superficialità, il facile gioco mi è simpatico-mi piace-lo compro non ha mai costruito alcun marchio, non ha mai edificato niente di solido. Purtroppo la pratica si è diffusa perché è un gioco facile che non richiede particolari competenze, ottiene illusori risultati di breve respiro e alcune agenzie in stato di bisogno hanno cavalcato senza ritegno il trend.
Infatti, dopo questo mio raccontino, l’adesione del board normalmente è unanime. Tutti d’accordo.
A volte per fortuna il seguito della storia va avanti bene.
A volte invece succede che dopo un paio di mesi va in onda la loro nuova campagna tv: un guitto da avanspettacolo e una sgualgia a dirsi vecchie battute idiote, un cretino famoso travestito, una famiglia cerebrolesa, una Formosa&Famosa che dice: “Fai come me”, una zoccola travestita da massaia, una massaia travestita da zoccola, spot senza qualità e senza dignità, ammiccamenti, allusioni, sottintesi, un’auto che corre nella campagna con una musichetta simpatica e uno slogan incomprensibile, gente che ancora assaggia il prodotto e dice. “Ma è delizioso! Ma è gustosissimo!” e ogni possibile combinazione degli elementi suddetti.
Dovunque, tonnellate di parole tanto abusate quanto inutili: unico, prestigioso, esclusivo, buono, selezionato, garantito, controllato, molto più che un..., per ogni vostra esigenza etc etc etc etc etc.
Ma dov’è l’intelligenza? Dov’è quell’ingrediente fondamentale nel rapporto fra persone e fra persone e marchi? L’umorismo dell’intelligenza si chiama ironia, non comicità volgare.
Se volete sentire un parere diverso sull’intelligenza delle persone, trovate un mio precedente articolo qui.
Se uno qualsiasi dei manager delle marche di cui parlavamo all’inizio vedesse lo scempio della maggior parte della nostra comunicazione penserebbe a uno scherzo.
Da tanto tempo invece la parte migliore del mio mondo si domanda perché.
Provo a fare un elenco di ragioni.
IL SIGNOR AZIONISTA E IL SIGNOR MANAGER
Come abbiamo visto, la reputazione del marchio (nel corso del tempo le abbiamo dato nomi più esotici: brand value, brand equity etc. io preferisco il buon vecchio concetto di reputazione, mi
sembra più solido, più campagnolo, più sano) dovrebbe essere argomento quotidiano nei board e nei reparti marketing.
Invece lo si incontra solo in occasione di due diligence (fusioni o acquisizioni), di riassetti societari, di passaggi generazionali e interessa più l’azionista che il manager. E quando ogni anno Interbrand o Business Week pubblicano classifiche e valori dei brand più noti al mondo, con quei numeri strabilianti.
E’ l’azionista infatti che pensa a cosa passerà ai suoi figli. Strutture industriali, strutture commerciali e reputazione.
Da troppo tempo l’interesse del manager e l’interesse del padrone rischiano di non sovrapporsi.
C’è una compagnia di giro di amministratori delegati, spesso gestiti dagli head hunter, che arriva nelle aziende con una visione di breve periodo. Ristruttura, razionalizza, rinegozia debito
e fornitori, smaltisce le scorte, lancia prodotti e promozioni. Ottiene risultati, produce utili e se nel caso difende quotazioni agli stock exchange. L’imprenditore sembra contento. L’AD si
procura articoli e copertine che lo celebrano sulla stampa che conta, fa girare le notizie delle sue performance e via verso una nuova avventura. Senza occuparsi di quel valore che interessa
all’azionista. Senza occuparsi dei decenni successivi.
Altra differenza: il coraggio di una decisione deviante.
Ogni campagna rilevante deve per forza essere innovativa, originale, spiazzante, coraggiosa.
Per cui non può avere precedenti su cui misurarla. Non può reggere un test, perché gli interrogati tendono a replicare l’adesione al già conosciuto. Richiede l’assunzione di un rischio che solo il padrone si può prendere, o uno di quei pochi AD che sanno comportarsi come un padrone.
Scusate se cito un caso a cui ho partecipato. Se la campagna “Dove c’è Barilla c’è casa” che ho generato alla fine del 1984 con Roberto Fiamenghi e Gavino Sanna non avesse contribuito, insieme alle altre campagne precedenti e successive, a solidificare una reputazione inattaccabile attraversoil presidio di valori importanti e condivisi con delle idee rilevanti, non andrebbe quasi immutata in onda da 25 anni e non rappresenterebbe un caso nella comunicazione italiana e nei master.
Quella campagna decollò e andò in onda con il primo spot di due minuti seguito da altri quattro solo perché, dopo che finii di raccontare le storie, fra molte teste assorte preoccupate e ciondolanti, dopo lunghe discussioni, Pietro Barilla a capotavola di un infinito tavolo da riunioni a Parma, disse: “La facciamo.”
Il giorno che lo spot andò in onda Pietro Barilla incontrò Indro Montanelli a Cortina che gli disse: “Pietro, avete fatto una campagna meravigliosa”. E il lunedì dopo in azienda non si
contavano i grandi manager che dicevano: “L’avevo detto io!”.
Ero lì, e vi dò la mia parola che andò esattamente così.
Se ogni operazione di comunicazione è un mattone nella costruzione del brand, non si possono continuare a delegare le insicurezze, le verifiche, le modifiche o le decisioni a middle manager che non sanno quello che fanno o non possono fare quello che sanno.
I migliori imprenditori, i migliori amministratori delegati dovrebbero tornare intorno ai tavoli con i migliori uomini delle migliori agenzie di comunicazione e occuparsi in prima persona dei progetti che riguardano questa variabile ormai così fondamentale del grande gioco del mercato. Che lascino per un giorno al mese le discussioni con gli analisti intorno al valore dello stock, le conversazioni con i business banker, con i fondi, con gli head hunter.
Sono sicuro che Luciano Benetton, Renzo Rosso, Sergio Marchionne, Giorgio Perfetti, Guido Barilla, Bernardino Caprotti l’hanno fatto o lo fanno.
E che si fidino di noi. Perché questo è il nostro mestiere, non il loro. Quelli di noi che hanno capacità ed esperienza conoscono le persone, i comportamenti e i mercati come nessuno. Noi siamo passati attraverso centinaia di casi e di ricerche. Noi vediamo mercati diversi e li incrociamo. Noi possediamo una profonda e raffinata cultura, e siamo capaci di lasciarla sedimentare e buttarla via per seguire un’intuizione nuova e stabilizzante. Noi sappiamo produrre idee leggere solo perché abbiamo conoscenza pesante. Noi, italiani, se liberati dalle catene siamo migliori dei nostri colleghi di qualsiasi Paese.
La finanza è la conseguenza di un lavoro ben fatto, non lo scopo.
Tutti ci stiamo facendo distrarre dalla finanza, anche le grandi agenzie, parte di gruppi quotati. Un giorno pochi anni fa incontro a Parigi Alain de Pouzilhac, all’epoca ceo di Havas (di cui ero
socio in un’agenzia a Milano), che nella hall del palazzo del gruppo mi fa: “Sai Andrea, ho pensato che dovrei nominare alcuni uomini molto capaci a capo delle operazioni internazionali per i nostri clienti più importanti, come degli international brand directors.” E io ricordo perfettamente che ho pensato: “Questo a furia di parlare con i banchieri si è fulminato il cervello. Cosa pensa che facciamo noi tutti i giorni? Quello che sta progettando è la cosa più sensata e normale da fare al mondo. A cosa stava pensando fino a ieri?”
L’ANSIA
L’ansia è un stato d’animo negativo ma distruttivo. Al contrario dello stress, che è uno stato d’animo negativo ma molto creativo. Noi lo sappiamo molto bene.
L’ansia non produce niente di buono.
Io prendevo in giro la mia mamma che, finché c’era, quando andava a Roma in treno già a Firenze si preparava con la valigia per scendere, per timore di mancare la fermata.
La necessità di tenere la barra dell’identità di marca bella diritta preclude l’ansia come metodo di lavoro.
Eppure ogni anno assistiamo a marche che cambiano campagna, a volte con capovolgimenti acrobatici di significati e linguaggi.
Voi cosa dite di una vostra amica che ogni sei mesi cambia colore e stile dei capelli, trucco e abbigliamento, atteggiamenti e interessi? Che è insicura? Bene, anche le persone lo dicono delle
marche che fanno così.
Per far questo le aziende indicono le meravigliose gare.
Io lo capisco. Se sono scapolo e voglio scegliere una ragazza con cui passare un mese a zonzo che ne so, per la Baja California, e sette delle migliori mi danno gratis, a domicilio e a mio comando un completo assaggio di quelle prossime settimane, ma chi mi ferma dal farlo?
Peccato che questo potrebbe essere un buon metodo per scegliere una ragazza per la Baja
California. Non un partner in un settore cruciale con cui investire somme da piccole a enormi, ma sempre cruciali per i bilanci. In un’atmosfera da laboratorio, con persone che spesso conoscono poco di noi e del nostro mercato, si pretende di fare la scelta giusta senza avere strumenti e capacità di giudizio adeguati.
Infatti molto spesso la campagna scelta in gara non va in onda, o viene sostituita dopo poco, o va di nuovo in gara.
Ma io dico, passate un week end insieme al gruppo di lavoro dell’agenzia in un bel resort di campagna, e ne saprete molto di più delle loro personalità e delle loro potenzialità!
Oltre a vedere come stanno a tavola, che è sempre un bel modo di giudicare le persone.
C’è un esempio famoso, che viene spesso citato. E per questo lo racconto senza paura di farmi altri nemici oltre a quelli che ho già.
In Veneto, più o meno nello stesso periodo, nascono due aziende: Benetton e Stefanel.
Luciano Benetton ha la fortuna di imbattersi in un genio visonario: Bruno Suter, che ha la sua agenzia a Parigi di nome Eldorado. Benetton e Suter in poco tempo distillano un marchio e una
missione: United Colors of Benetton, con l’idea che i colori potessero unire popoli, nazioni, razze e religioni.
Con l’aiuto di alcuni grandi fotografi, il più noto dei quali Oliviero Toscani, che più tardi senza esperienza di comunicazione esaspererà il concetto fino al rischio di rottura, producono alcuni dei
più importanti pezzi di pubblicità italiana di sempre, rispettati e premiati in tutto il mondo.
Il risultato è una reputazione e notorietà scintillante ottenute in dieci anni, quando per avere gli stessi risultati nel mondo, Coca-Cola ne ha impiegati cinquanta.
Dal primo incontro con Suter, Benetton tiene la barra diritta. Fa come Apple, Coca-Cola, Nike.
Io non so esattamente perché Stefanel non abbia fatto lo stesso, per cui non dò spericolati giudizi.
Ma Stefanel nel tempo continua a cambiare consulenti, agenzie, direzioni, mood, personalità, creatività.
Il risultato è sotto gli occhi di chiunque. Provate a chiedere per la strada di descrivervi la personalità di Benetton e quella di Stefanel e vi accorgerete della differenza.
IL FUTURO E LA TECNOLOGIA
Viviamo un’epoca eccitante. Mai come oggi si sono aperte arene del possibile in cui esercitare intelligenza e creatività. Fare il creativo oggi è una pacchia. Ci sono millanta occasioni in tutti i
diversi mezzi con cui oggi si possono raggiungere le persone, o farsi raggiungere da loro. Per non parlare di combinazioni e incroci.
Ricordo una mia intervista del 1989 in cui già mi lamentavo di avere sempre gli stessi pochi mezzi per raggiungere chi dovevo! Trenta secondi, doppia pagina, poster, radio e morta lì. Per anni
i “giovani” sono stati irraggiungibili dai media tradizionali, con l’eccezione della radio. Sembrava di somministrare sempre la stessa medicina qualunque fosse il bisogno. Roba da matti.
In più oggi la comunicazione non è più solo one way. Finalmente la gente risponde.
Si può realizzare davvero l’ipotesi del legame fra marche e persone.
I forum, lo User Generated Content, le mobile applications, gli eventi reali o sul web, la partecipazione remota, la verifica dell’interesse geolocalizzato, i blogs, esperienze sempre più
personalizzate ed emotive grazie alle nuove tecnologie informatiche come HTML5 e tutto quello che sta per arrivare e arriverà possono davvero realizzare l’utopia a cui si sperava prima o poi di
arrivare.
Io non sono d’accordo con chi sta parlando di reset, di rivoluzione, di cambiamento.
Io dico che finalmente abbiamo gli strumenti per realizzare compiutamente quello che i migliori di noi già sapevano di dover fare.
Che ci sia oggi come prima chi li sa usare e chi no, non è una scoperta recente.
Le campagne di merda c’erano anche negli anni ’80.
Il vero cambiamento è nel rapporto fra clienti e agenzie. Perché i clienti ancor prima delle agenzie sono disorientati. L’offerta di servizi e di consulenza si è enormemente ampliata. Si fa una fatica bestiale a distinguere i professionisti dai ciarlatani, l’utile dal pletorico, il necessario dallo spreco.
In questo casino la percezione del costo della qualità si è persa.
In questo casino i responsabili nelle aziende sono propensi a preferire persone di cui si fidano a persone davvero capaci.
La palla è alle agenzie. Che devono alzare la voce con l’orgoglio delle proprie capacità, talenti, competenze, conoscenze. Che devono farsi rappresentare degnamente nelle associazioni, separando i fornitori settoriali ed espellendo i ciarlatani. Che devono ridare ai clienti una sensazione di fiducia e di serietà, di essere capaci e fidati nello stesso tempo.
Oggi e domani sono fantastici. Sarebbe un peccato non divertirsi.
Andrea Concato
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