lunedì 13 febbraio 2012

Costa Concordia, l'immagine non si difende con un 'inchino' mediatico


Per giudicare con equilibrio, in un’ottica comunicazionale, la tragedia della Costa Concordia, peraltro ancora in corso, occorre chiarire alcuni punti preliminari.
Primo: l’eccezionalità dell’evento. E’ quasi senza precedenti, e non può essere paragonato né all’esplosione della piattaforma BP nel Golfo del Messico (incidente industriale), né a Chernobyl
(sottovalutazione delle conseguenze di un esperimento in un impianto obsoleto). Qui c’è innanzitutto un caso di irresponsabilità personale, forse simile solo a quello dei piloti Usa nel
disastro della funivia del Chernis.

Secondo: la necessità di aver chiare le priorità. Sul piano operativo la task force comunicazionale (tre agenzie, 13 professionisti) ha presidiato da subito la situazione, come da manuale, ma non le si poteva chiedere di cambiare la sequenza delle cose da fare.
La nostra è l’epoca della comunicazione, è vero. Ma non può essere quella della comunicazione, innanzitutto e contro tutto. Altrimenti salta la gerarchia dei valori, e la sindrome diventa quella del comandante Schettino, che intervistato mentre qualcuno ancora moriva, ha chiesto al giornalista se la sua comparsata tv era venuta bene…
Non ci può essere una realtà che “viene bene in tv” prima di una realtà di morte e di vite da salvare.
Un conto dunque è un incidente grave ma senza perdite di vite umane (si veda il caso Enel nel black out 2003, perfettamente risolto da Comin e dai suoi) e un conto un caso in cui la prima cosa da fare, per l’azienda, è dare collaborazione ai soccorsi e alla magistratura.
Altrimenti si cade nella deformazione di considerare che quel che conta appunto è solo “apparire bene”.
Non ci può essere una vicenda venuta malissimo nella sostanza, con morti e feriti, e ciononostante con buoni risultati d’immagine (al Chernis si tentò sciaguratamente proprio questo)…

Terzo: non si può sovraccaricare il ruolo della comunicazione, perché la gestione di una crisi ha degli aspetti di prevenzione e degli automatismi di cui la comunicazione è strumento, non fine.

Quarto: si deve dire la verità. Il successo della comunicazione non può essere misurata sulla base di omissioni o bugie che riesce eventualmente a far passare per verità. La reputazione non si costruisce sulla sabbia delle apparenze, ma attorno a scelte comunque valoriali.
Tantomeno - questa è una regola basilare della comunicazione di crisi - non è ammesso che si coprano errori ed omissioni gestionali con soluzioni mediatiche di comodo.

Quinto: il riscontro sull’opinione pubblica si deve misurare con i fatti.

Mannheimer (Porta a Porta, due soli giorni dopo l’evento) rileva che solo il 16% degli interpellati ha dubbi sulla buona sicurezza delle navi da crociera, le prenotazioni non crollano.
Conclusione: la reputazione si può conquistare nello spazio di tempo di una telefonata della Capitaneria di Porto di Livorno, ma anche offuscare (non c’entra Costa) nel mancato coordinamento
di troppi “portavoce” pubblici tutti impegnati ad emergere mediaticamente. E allora si torna al punto di partenza: le esigenze di immagine non possono essere un “inchino” a pure finalità di buona esposizione. E la comunicazione non è uno show; è equilibrio tra esigenze aziendali e interessi generali.

Beppe Facchetti,
Presidente Assorel

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